Ridivampa la polemica su Minsk e sull'ipotetico Mondiale bis in Bielorussia, a fine maggio. Quando l'hockey (ma non solo) dovrebbe pensarci due volte
«Se continua così fino alla fine, quello bielorusso sarà il più bel Mondiale di sempre». Parola di René Fasel, nell’affollatissima conferenza stampa che inaugura l’ultima settimana dei Campionati del mondo di hockey nel maggio del 2014, in una Minsk tirata a lustro al punto tale che per trovare per terra un mozzicone di sigaretta bisognerebbe gettarcelo di proposito.
Guardando solo alle cifre, al settantenne presidente svizzero dell’Iihf, la Federhockey mondiale, non si può certo dare torto: con oltre seicentoquaranta mila spettatori negli stadi e un miliardo di persone incollate al televisore, quell’edizione batte tutti i precedenti record. Basta e avanza per smorzare le (timide?) polemiche che precedono l’evento, sponsorizzate soprattutto dagli Stati Uniti, dopo la scelta del Congresso Iihf di attribuire i campionati a un Paese che già all’epoca stando all’ong ‘Freedom House’ è il meno democratico del Vecchio continente.
Sarà forse un po’ un mondo a sé quello dello sport, ma di certo non vive su un altro pianeta. Ecco perché prima o poi può capitare che finisca se non proprio a immischiarsi nella politica, quantomeno a lambirla. Il risultato di tale matrimonio non è sempre spettacolare come lo fu nel caso della diplomazia del ‘ping pong’, abusatissimo esempio di disgelo con una racchetta in mano che portò alla distensione dei rapporti fra americani e cinesi negli anni Settanta. Infatti è sufficiente pensare a ciò che successe a Berlino nel 1936, col rifiuto del Cio di spostare i Giochi olimpici dopo l’ascesa al potere di Hitler tre anni prima: l’evento finì col trasformarsi nella miglior propaganda possibile per il regime nazista, anche perché – neanche a farlo apposta – quella fu la prima edizione della storia passata alla televisione.
Era l’8 maggio 2009, quando la candidatura del Mondiale bielorusso ottenne luce verde da parte del Congresso Iihf, stravincendo con 75 voti sulla concorrenza composta da Ungheria (24), Lettonia e Ucraina (3 ciascuno). A quel punto iniziarono a scorrere fiumi d’inchiostro, siccome già all'epoca Alexander Lukashenko era considerato da più parti l’ultimo dittatore d’Europa. La risposta della Federhockey mondiale alla polemica fu che i suoi statuti non le permettevano di discriminare questa o quella nazione per motivi politici. Ciò che suona più o meno così: chi siamo noi per dire di no?
Quella diatriba, covata per sette anni sotto la cenere, è nuovamente divampata nelle ultime ore. Non tanto per l’avvicinarsi di quelli che sarebbero i secondi Mondiali della storia in Bielorussia, a fine maggio, semmai si faranno (lì come altrove del resto, perché siamo pur sempre invischiati nel bel mezzo di una pandemia), pur se stavolta in collaborazione con la Lettonia. No: l’opinione pubblica è trasalita dopo aver assistito all’abbraccio dell’altro giorno tra Lukasheko e Fasel. A Minsk, la capitale bielorussa dove l’ex dentista friborghese si era recato per discutere di hockey, appunto. Scordandosi, si fa per dire, delle immagini che passano da mesi sulle tivù di mezzo mondo, con le manifestazioni di piazza delle migliaia e migliaia di oppositori che accusano il Presidente (come lo chiamano nella capitale, senza indicarlo per nome) d’aver imbrogliato alle elezioni dell’agosto scorso. Quelle del suo sesto mandato.
Oggi Fasel ha reagito pubblicamente, ammettendo di aver «giocato con il fuoco», rammaricandosi delle reazioni negative suscitate dalle immagini di quell’incontro, aggiungendo che non s’è trattato di «un incontro amichevole», che col governo bielorusso c’è un contratto in essere e che invece è stata «una riunione seria, in cui l’Iihf ha messo sul tavolo questioni delicate e specifiche».
Tuttavia, Fasel – il quale, tra l’altro, da tempo aveva deciso di non ricandidarsi, quindi se mai fosse esistito il Covid al suo posto ora ci sarebbe qualcun altro – dimentica che mai come nei tempi in cui siamo costretti a vivere l’immagine prevale su tutto il resto. È per quella ragione, che l'abbraccio dell'altro giorno a Lukashenko si è trasformato in un gesto emblematico, verrebbe da dire quasi iconico. In una Bielorussia ben diversa da quella di sette anni fa, con tutto ciò che ne consegue. Lukashenko invece è lo stesso di prima, e dopo averne in qualche modo legittimato il ruolo nel 2014, portando a Minsk i Campionati del mondo di hockey, evento sportivo più importante mai ospitato dal giovane Paese ex sovietico la cui costituzione è 15 marzo 1994, anche volendo Fasel e la Federazione internazionale oggi faticherebbero a smarcarsi.
Se c’è una cosa che insegna tutto ciò, in attesa di conoscere come questa storia finirà, è che sarebbe un bene se pure lo sport prendesse seriamente in considerazione le conseguenze di certe decisioni. Evitando, pur involontariamente, di trasformarsi in cassa di risonanza, organizzando eventi in nazioni in cui la democrazia è zoppicante, dove i diritti della popolazione, o anche solo parte di essa, non vengono tutelati. Poi, naturalmente, si può obiettare che in tal caso non sarebbero più molte le destinazioni nel mondo in cui si possa andare. Tanto più che, ironizzando, ma neppure troppo, specie dopo la presa del Campidoglio, da quella lista andrebbero depennati pure gli Stati Uniti.