La riforma pensionistica dei membri del governo è realtà, ma non risolve i dubbi legati alla carica
È da anni che si discute dei vitalizi dei consiglieri di Stato. E finalmente ieri è giunto il via libera a una riforma innescata anche da un’iniziativa popolare del Partito socialista di qualche anno fa. Sull’onda della lotta ai ‘privilegi della casta’, il tema, infatti, era diventato vero e proprio strumento di lotta politica. Numerose le iniziative parlamentari per cercare di rivedere la situazione attuale giudicata imperfetta da molti, ma che aveva almeno il pregio della chiarezza: a seconda del numero di mandati, il consigliere di Stato ‘pensionato’ maturava una rendita parametrata sugli onorari percepiti negli anni di carica e che teneva conto anche di altri redditi da lavoro eventualmente percepiti dopo la cessazione della stessa. Il difetto del sistema, secondo i contrari, era che pesava interamente sui conti del Cantone, unico ente pagatore, e non da un ente previdenziale come è il caso di tutti i funzionari dello Stato, generando una disparità di trattamento. Una modalità, comunque, mutuata da quanto avviene attualmente per gli ex membri del Consiglio federale.
Dal prossimo primo gennaio si cambia, ma la riforma, tuttavia, non convince. Anche i futuri membri del governo saranno assoggettati all’Istituto di previdenza cantonale, quello dei dipendenti pubblici (Ipct), ma con modalità per forza di cose diverse. In ogni caso non saranno dei dipendenti come gli altri. La funzione di membro del governo è esercitata sempre, 24 ore su 24 e sette giorni su sette. E dovrebbe essere svolta in modo sereno senza l’assillo di cosa fare dopo quando verrà a mancare quel reddito. Essendo investiti da un mandato popolare, definito dalla legge e dalla costituzione, i membri eletti del governo non firmano di certo un contratto di lavoro con lo Stato che stabilisce ferie, tredicesime e trattamento pensionistico. Le elezioni non sono ancora un modo per nominare amministratori delegati. Questo ovviamente non li mette al di sopra delle norme e del buonsenso. Ma non è nemmeno corretto lasciare senza rete chi deve abbandonare la carica di consigliere di Stato perché non rieletto.
Il rapporto di maggioranza appoggiato da tutto l’arco parlamentare, a eccezione dell’MpS che ha annunciato referendum, è frutto di un lungo lavoro di compromesso che ha accolto sì il principio dell’affiliazione all’Ipct e quindi del versamento paritetico dei contributi previdenziali, ma ha anche stabilito le prestazioni finanziarie al momento della cessazione della carica. I consiglieri di Stato avranno quindi diritto al versamento di un’indennità unica di uscita oppure un reddito ponte. Somme che sostituiranno l’attuale sistema dei vitalizi. In linea generale l’indennità di uscita è versata a coloro che cessano la carica prima dell’anno del compimento di 55 anni. Il reddito ponte è versato a coloro che hanno compiuto 59 anni nell’anno della cessazione della carica. Chi invece abbandona la carica tra i 55 e i 59 anni può scegliere tra liquidazione e reddito ponte. Dai 65 anni, invece, le uniche rendite saranno quelle maturate grazie ai versamenti e agli apporti di capitale all’Istituto di previdenza. Regole queste ultime – è bene ricordarlo – che non toccano comunque gli ex e gli attuali consiglieri di Stato, se non per il prelievo contributivo a onorario comunque aumentato, che resteranno assoggettati al diritto anteriore. Quello del 1963, per intenderci.