Il partito, tradizionalmente ostile alle misure d’accompagnamento, ora si erge a paladino dei diritti dei lavoratori. Con una credibilità a pari a zero.
Un po’ sarà la pandemia, che ha fatto slittare di quattro mesi la data della votazione, tirando per le lunghe una campagna scialba, giocata su argomenti piuttosto triti, in gran parte sentiti già nell’inverno 2013-2014 (si votava ‘contro l’immigrazione di massa’), non in grado di ‘scaldare’ cittadini che almeno apparentemente hanno altro per la testa. Un po’ sarà la stessa Udc, reduce da una lunga serie di sconfitte alle urne, alle prese negli ultimi mesi con un sofferto avvicendamento al vertice, guidata da un nuovo presidente ancora impalpabile Oltralpe. Sta di fatto che ci avviciniamo stancamente alla votazione del 27 settembre sull’iniziativa anti-libera circolazione.
Anche perché adesso la posta in gioco è chiara: la disdetta dell’Accordo sulla libera circolazione (Alc) tra Svizzera e Ue, con tutto quel che ne consegue per le misure di accompagnamento e l’insieme dei Bilaterali I. Stavolta non si scappa: visto quanto (non) successo dopo il 9 febbraio 2014 e dopo la Brexit, nessuno può ragionevolmente credere che Bruxelles sia disposta a negoziare entro un anno da un eventuale ‘sì’ popolare la fine dell’accordo. Tranne l’Udc, naturalmente.
Sei anni fa Toni Brunner & co. seppero alimentare l’illusione che l’Ue avrebbe acconsentito a mettere mano all’Alc per adeguarlo a contingenti e tetti massimi. Oggi, in spregio di ogni evidenza (persino quella messa nero su bianco nel testo della sua iniziativa), l’Udc ci ritenta. Il presidente Marco Chiesa scrive di un’iniziativa “volta a disdire, in extrema ratio (corsivo nostro)” la libera circolazione. E il suo predecessore Albert Rösti, ammiccando ai simpatizzanti di Plr e Ppd, cerca di vendere la tesi secondo cui l’Alc potrebbe restare in vigore anche in caso di ‘sì’: sospendendolo, senza disdirlo formalmente, si eviterebbe l’attivazione automatica della clausola ghigliottina, che fa un tutt’uno dei sette accordi del primo pacchetto di Bilaterali. Polvere negli occhi.
L’Udc fa una magra figura. Soprattutto quando si erge a paladina dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori. Denuncia “il triste fenomeno del dumping salariale e della precarizzazione”, denigra misure accompagnatorie “che in buona sostanza hanno fallito su tutta la linea” (Chiesa). Spaccia l’iniziativa (nientemeno che “l’ultima ancora di salvezza per il nostro paese”: il presidente dell’Udc Ticino e consigliere nazionale Piero Marchesi) come “una scelta rivoluzionaria per ridare una visione alla nostra Svizzera” (il leghista Norman Gobbi, presidente del Consiglio di Stato). A spiegare “come mantenere i nostri salari e l’occupazione” è la consigliera nazionale Magdalena Martullo-Blocher, fustigatrice (assieme a tanti altri nel suo partito) delle misure collaterali, qualcuno che stando al ‘SonntagsBlick’ nell’ultimo decennio in dividendi ha incassato – da azionista della Ems-Chemie, assieme alle sue sorelle – molto più del monte salari dei 2'648 dipendenti dell’azienda di famiglia, una somma cresciuta quasi ogni anno mentre gli stipendi medi del personale scendevano.
Non che di problemi in fatto di salari e altro non ve ne siano. I ticinesi lo sanno perfettamente. Ma dice bene il presidente dell’Unione sindacale svizzera Pierre-Yves Maillard, quando afferma che “oggi controlliamo meglio le imprese e questo fa arrabbiare i leader dell’Udc”, ‘rivoluzionari’ al rovescio, smaniosi di tornare all’epoca dei contingenti e degli stagionali, a un mercato del lavoro più disponibile ai loro interessi.