Prima dell'inizio di un dibattimento il giudice nega l'atto d'accusa a un giornalista, ponendo le sue condizioni. La decisione suscita qualche interrogativo
Il Tribunale penale cantonale ha poca voglia di comunicare? Speriamo di no. Ha qualche difficoltà nel rapporto con i rappresentanti dei media? Può darsi... Fatto sta che ieri, per un processo alle Assise criminali di Locarno (riunite a Lugano e presiedute dal giudice Mauro Ermani), la nostra redazione si è trovata con i bastoni nelle ruote.
Una settimana fa abbiamo comunicato alla segreteria del tribunale che ci saremmo presentati prima dell'inizio del processo per ritirare l'atto d'accusa (stilato dal procuratore pubblico e contenente i dettagli del caso), ma che non avremmo seguito il dibattimento. Ieri mattina, a sorpresa, Ermani ci ha negato il documento, che è però stato consegnato agli altri giornalisti. Se non si tratta di una disparità di trattamento, poco ci manca... La spiegazione: “Niente atto d'accusa a chi non segue il dibattimento”. È vero che una tale decisione è di competenza del giudice, ma poteva dirlo prima. Abbiamo comunicato le nostre intenzioni con largo anticipo; c'era tempo a sufficienza per rispondere al nostro mail e per permetterci di organizzarci in altro modo.
Il Consiglio svizzero della stampa ha stabilito nero su bianco che un giornalista può riferire di un processo anche senza presenziarvi, perciò mal si comprende il 'niet' di Ermani. Il presidente della Corte ha poi menzionato la delicatezza del caso – in aula si parlava di violenza carnale e molestie sessuali –, ma a nostro avviso neppure ciò giustifica il divieto d'accesso all'atto d'accusa. Tanti sono i casi delicati e i giornalisti professionisti sanno come trattare in modo corretto e confidenziale la documentazione sensibile.
Il principio della pubblicità della procedura giudiziaria, nonché la libertà dei media e d'informazione, è un diritto sacrosanto, come ha già avuto modo di chiarire il Tribunale federale (Tf). “In uno Stato democratico i media svolgono un ruolo indispensabile d'informazione e di comprensione del funzionamento della giustizia – si legge in una decisione del 2017 dei giudici di Losanna –. La pubblicità è volta a impedire qualsiasi forma di giustizia segreta: essa protegge le parti in causa, garantendo lo svolgimento del procedimento conforme al diritto”.
E con “pubblicità di una procedura penale” s'intende pure la sentenza. La nostra impressione è che anche su casi importanti e seguiti dai media (e quindi dall'opinione pubblica) la Corte penale cantonale adotti talvolta un modus operandi poco comprensibile: la sentenza, che viene pronunciata diversi giorni dopo il dibattimento, viene comunicata unicamente alle parti. Ai giornalisti il compito di andare a ripescarla in qualche modo, magari per vie indirette.
In un mondo ideale i rapporti tra Giustizia e Media dovrebbero essere ottimi, contrassegnati da reciproca comprensione. Ieri non solo questa comprensione è mancata, ma il presidente della Corte penale cantonale, dettando le sue regole, ha assunto una posizione che ha influito sul lavoro della nostra redazione. Così a processo è finita l'informazione. Ci auguriamo che si sia trattato di un qui pro quo, nella speranza che questo atteggiamento non sia il segnale di una certa qual difficoltà nel gestire i rapporti con i giornalisti.