Il cerchio dell’Adria Tour si è chiuso con la positività del serbo che il torneo ha voluto e promosso. ‘Abbiamo agito a fin di bene’. Ma con superficialità
Positivo anche lui, Novak Djokovic, che l’Adria Tour ha promosso e organizzato per farne un evento i cui incassi avrebbe poi devoluto a favore delle vittime del coronavirus. Un paradosso beffardo. Un’azione a fin di bene, ma pur sempre avventata, non c’è che dire. Con buona pace dei buoni propositi di unire i Balcani sotto il vessillo della solidarietà.
Novak Djokovic, fiero e improvvido, è stato incastrato dalla smania di dare un segnale allo sport, al tennis in particolare, lui che è il rappresentante del Consiglio dei giocatori. Chi mi ama, mi segua. Chi l’ha seguito, oggi si pente. A chi non lo ama, ha dato un motivo in più. E i prossimi grandi eventi con pubblico? Bell’aiuto, grazie, come se non ci fossero già tanti interrogativi e timori.
Non troppo spaventato dal virus e molto critico, da subito, circa i rigidi protocolli adottati dagli organizzatori degli Us Open, molto più attenti e responsabili di lui nel pianificare un evento che per svolgersi in sicurezza non può che sottostare a regole ferree, inevitabilmente limitanti, Djokovic ha peccato di presunzione e di superficialità. Soprattutto, è venuto meno al senso di responsabilità che un campione del suo profilo dovrebbe sempre avere. Fare come se niente fosse, mentre altri ancora si interrogano su come procedere dopo il lockdown, non giova. Non giova alla salute: è il men che si possa dire, alla luce della positività accertata sua, del suo preparatore atletico, dei colleghi Dimitrov (e di un membro dello staff del bulgaro), Coric e Troicki, della moglie incinta di quest’ultimo. Né giova all’immagine del tennis, alla quale ha arrecato un danno incommensurabile, in un momento storico in cui la disciplina sta ancora ragionando sul modo e sull’opportunità stessa di ripartire.
Già c’erano poche certezze e tanti paletti, figurarsi adesso che alcuni tennisti sono infettati (asintomatici, d’accordo, ma non è un’attenuante) e in isolamento volontario. L’operazione Adria nasceva davvero con presupposti nobili quali la beneficenza, ma tradisce anche una superficialità che non può essere giustificata ricordando che Novak non ha violato alcuna regola sanitaria specifica.
Per onor di cronaca, è giusto dire che nei due Stati in cui il torneo si è tenuto, Serbia e Croazia, non vi erano restrizioni sulla partecipazione del pubblico agli eventi all’aperto. Va però precisato che in vigore restano le decise raccomandazioni al rispetto del distanziamento sociale, clamorosamente eluse da Djokovic e compari, in campo e in discoteca, e dagli spettatori sugli spalti.
Pesa, poi, il capo d’accusa più pesante, quel senso di responsabilità al quale Djokovic è comunque venuto meno, proponendosi come paladino di una disciplina alla quale ha inferto un duro colpo. Già aveva dimostrato scarsa attenzione al problema non partecipando a una riunione con i colleghi per dettare le regole della ripartenza. Stavolta è andato oltre. Dapprima avventurandosi con colpevole superficialità e con troppa disinvoltura in un territorio che nessuno conosce ancora bene, quello degli assembramenti popolari senza vincoli né precauzioni. Poi, impartendo una non richiesta lezione, subito dopo aver ricordato che ha il cuore puro e che le sue intenzioni erano nobili. Non abbiamo motivo di dubitare della purezza del cuore. Semmai, è la lezione finale maldestramente impartita a lasciarci perplessi: “Il virus è ancora presente, è una realtà con la quale dobbiamo imparare tutti a convivere”. Ma dai?