Settori nei quali i salari arretrano, dumping, precariato, sottoccupazione, scarsa innovazione. E ora la crisi post-coronavirus. Cercasi "nuovo contratto sociale"
«Purtroppo vedo che le stesse ideologie che hanno dominato la politica economica negli ultimi trent’anni stanno serrando di nuovo i loro ranghi». Più chiaro di così non poteva essere Christian Marazzi, uno dei più profondi conoscitori del mercato del lavoro ticinese. Considerazione tra il sapido e l’amaro, arrivata alla fine dell’intervista pubblicata oggi, nella quale Marazzi cerca di spiegare perché il Ticino dovrà affrontare questa nuova crisi con una struttura già fragile. Riassumendo molto rozzamente: settori nei quali i salari arretrano da almeno un decennio, dumping, precariato, sottoccupazione, scarsa innovazione.
Lo so, lo so: a metterla giù così a brutto muso suono come uno di quei tizi strambi coll’eskimo, quelli che davanti alle università italiane cercano sempre di piazzarti ‘Lotta Comunista’ e impanano cotolette gigantesche sulla rivoluzione e il sol dell’avvenire. E poi non voglio certo prendere il povero Marazzi in ostaggio per fargli dire quello che penso io. Ma comunque i problemi son lì da vedere, anche se la versione governativa è quella del “tessuto economico molto variegato”, dell’economia “flessibile e capace di adattarsi agli eventi esterni”.
Sforzo di ottimismo: speriamo che la versione ‘vie en rose’ dell’economia ticinese sia solo un escamotage pubblicitario; che invece i problemi, quelli veri, siano ben noti a chi deve decidere. Allora potrebbe ancora trovare spazio quello che Marazzi chiama «nuovo contratto sociale»: nuove soluzioni per lenire la fragilità del lavoro e investire su un’«economia antropogenetica», nella quale «l’uomo lavora per l’uomo»: sanità, socialità, ricerca, istruzione. Un cambio di direzione per il quale – mi permetto di aggiungere – servono anche ingenti investimenti. E quindi un inevitabile indebitamento pubblico, almeno temporaneo, da combinare con quello che servirà per sostenere direttamente i consumi e il potere d’acquisto delle famiglie.
Per arrivare fin lì, l’importante è non cedere alla tentazione di tornare a fare come prima, rimettendo per l’ennesima volta il dito sul fornello, senza ricordarsi che scotta. Tantopiù che il ‘come prima’ non funzionava neanche prima, a dirla tutta: una crescita economica che dipende da settori poveri di tecnologia e dal lavoro sottopagato, concorrenza fiscale che va a morire come un gatto malato in capannoni vuoti, tagli alla spesa pubblica che hanno impoverito il fantomatico ‘ticinese medio’ – e il suo impagabile tessuto comunitario – al punto da spingerlo tra le zampe del populismo più belluino. È un modello morto, almeno da quando i capitali esteri hanno smesso di spuntare miracolosamente dai nostri caveau.
Nel frattempo l’economia dell’austerity ci ha consegnato bilanci pubblici in ordine, impomatati come ragionieri al primo colloquio di lavoro, ma anche un surplus globale di risparmi. Con un risultato paradossale, almeno in apparenza: un’economia piena di soldi, ma così fragile da dover essere tenuta in vita con tassi d’interesse negativi. D’altronde, tagliando la spesa, quella stessa economia si restringe e quasi in nessun caso la fiducia degli investitori privati ne controbilancia la contrazione; per questo Paul Krugman sfotte gli austeristi dicendo che credono nella “fatina della fiducia”. La faccio breve: non c’è momento migliore per un solido investimento pubblico su svariati fronti, dall’economia verde alle infrastrutture.
Purtoppo l’emergenza fornisce argomenti – discutibili, ma seducenti – anche a chi dice che adesso a maggior ragione bisogna aumentare la flessibilità, limare certi diritti acquisiti e spendere sì qualcosina, ma poi tornare subito al rigore fiscale. Il presidente degli imprenditori svizzeri, per dirne uno, giura che il Parlamento non deve “aprire ulteriormente le casse federali”, che “sarebbe controproducente rafforzare la protezione contro i licenziamenti” e che “un programma congiunturale dello Stato agisce sempre in ritardo e nel posto sbagliato”. Altri paventano la nascita di uno stato-Moloch che divorerà la libera impresa, e impugnano le limitazioni di libertà dovute alla crisi sanitaria come brutto segno d’uno stalinismo strisciante (citofonare von Hayek, ore pasti). Altri ancora parlano del virus ‘livella’, che non fa distinzione tra ricchi e poveri e quindi siamo tutti sulla stessa barca – spiegatelo ai commessi del supermercato –, e insomma non è mica il momento per far polemica con chi è al timone dell’economia: niente idealismo accademico, ragazzino, scansati e lasciaci lavorare. Il ‘come prima’, appunto.