Perché non dovremmo pensare alla pandemia come a una guerra e le misure di contenimento come un bilanciamento tra salute ed economia
“Continua la ritirata del virus” afferma un immunologo commentando i dati sul numero di morti e ricoverati. “Si è dato troppo peso alla salute e troppo poco all’economia” dichiara un imprenditore preoccupato per le conseguenze delle misure decise dalle autorità per contenere il contagio.
Due frasi che lasciano perplessi non tanto per il contenuto – lasciamo da parte sia il problema dell’evoluzione della pandemia, sia quello sull’opportunità dei provvedimenti – quanto per la forma, per le parole usate dal immunologo e dall’imprenditore e da molte altre persone. Si potrebbe ribattere che sono solo parole e l’importante è altro, ma sono le parole a dare forma al nostro pensare e al nostro agire. Conviene quindi prestare attenzione non solo a quello che viene detto, ma anche a come viene detto, perché una parola può cambiare tutto: uno degli esempi del linguista statunitense George Lakoff in ‘Non pensare all’elefante’ riguarda gli sgravi fiscali, termine che non può che evocare qualcosa di pesante da cui liberarsi al più presto.
Che cosa racconta quindi la ritirata del nuovo coronavirus? Racconta di una guerra che stiamo combattendo. È una metafora bellica su cui in diversi si sono espressi, tra cui Annamaria Testa su ‘Internazionale’: se da una parte il riferimento a un conflitto contro un nemico esterno è un potente richiamo alla mobilitazione e alla solidarietà, dall’altra il virus non è l’esercito di uno Stato ostile, chi è contagioso non è un agente del nemico, negli ospedali non si combatte ma si cura chi ha bisogno, medici e infermieri non sono eroi pronti a morire sul campo di battaglia ma professionisti che devono poter lavorare in sicurezza – senza dimenticare i rischi di derive autoritarie che l’idea di uno stato di guerra porta inevitabilmente con sé. Come ci ricorda il premio Nobel per la letteratura José Saramago in ‘Cecità’, “in un’epidemia non ci sono colpevoli, ci sono soltanto vittime”.
Le parole dell’imprenditore, invece, cosa evocano? A me viene in mente una bilancia, con “la salute” su un piatto e “l’economia” sull’altro, oppure il bilzo balzo dei parchi giochi: se una parte scende, l’altra sale e viceversa. Siamo insomma invitati a pensare alla salute e all’economia come a due cose che non solo possiamo pesare con precisione, ma anche distinguere. Come se costringere le persone in casa non avesse conseguenze negative anche sulla salute – che, ricordiamo, non è la semplice assenza di malattie, ma il benessere fisico, mentale e sociale delle persone –; come se convalescenze e lutti non avessero effetti sulla produttività lavorativa o sui consumi; come se ritrovarsi in difficoltà economiche non portasse anche a un peggioramento della salute; come se senza le decisioni delle autorità la gente continuerebbe a vivere, lavorare e spendere come prima; come se una sanità pubblica efficiente e capillare fosse indipendente dai conti pubblici. La crisi sanitaria e la crisi economica sono due facce della stessa medaglia, come hanno argomentato Martin McKee e David Stuckler in un editoriale pubblicato a inizio aprile su ‘Nature Medicine’: se vogliamo proteggere la salute dobbiamo proteggere l’economia. Dobbiamo, più che sconfiggere un nemico esterno, fare in modo che si arrivi sani e salvi in un porto sicuro nonostante la tempesta che si è abbattuta sulla nave in cui tutti noi ci troviamo a bordo.