Mi dicono che non è razzismo, ma allora che cos’è?
Parto da molto lontano perché la questione è complicata. Vi ricordate Adam Smith?
È l’icona dei liberisti, e il fondatore del pensiero economico moderno. Lui, filosofo e moralista, ebbe intuizioni brillanti espresse con lucida eleganza, ma vivrebbe malissimo la nostra epoca perché non si perdonerebbe di aver commesso una svista clamorosa. Nel 1759 affermò che un uomo accusato di essere un bugiardo si sentirebbe un reietto della società e preso dalla disperazione e dalla vergogna ne morirebbe. Madornale errore dello scozzese, indotto da troppo ottimismo attorno alle virtù del genere umano.
Infatti se oggi dovessimo individuare i caratteri di una porzione cospicua della politica, dovremmo convenire che la bugia e l’incapacità di vergognarsi di comportamenti riprovevoli e indecorosi ne sono l’asse portante, e gli esempi sono quotidiani. Non che una volta il comportamento politico fosse adamantino: il mentire, lo sappiamo, è parte della politica, ma la novità oggi consiste nel fatto che chi mente lo fa apertamente, senza pudore alcuno e una parte di cittadini si adegua. Uno studioso ha spiegato la faccenda sostenendo che mentre la persona media diventa sempre più stupida i politici diventano sempre più bugiardi: forse ha calcato un po’ la mano, ma ha indicato una tendenza. Oggi i vizi eccessivi, come l’ignoranza e l’incompetenza, in certi ambienti sono addirittura considerati le grandi virtù dell’antipolitica. Comunque i protagonisti di questo orientamento, quelli che sto per citare e molti altri, non mi sembrano intenzionati a espiare le loro colpe con pubblici pentimenti. Al contrario, continuano imperterriti per la loro strada disseminata di bugie, di disinvolti voltafaccia, di promesse non mantenute, di vistose manipolazioni della realtà in funzione del tornaconto di parte e del consenso.
In prima fila c’è Donald Trump, il bugiardo per eccellenza, e ogni volta che parla ti poni domande inquietanti sulla tenuta della democrazia: è inaffidabile e sta sfasciando il mondo con la formidabile arma dell’incompetenza; intanto insiste coi muri e suggerisce di sparare ai migranti (ma solo alle gambe) e ai curdi, che ci hanno salvato dall’Isis, rimprovera di non aver partecipato allo sbarco in Normandia. C’è lo zar Vladimir Putin che preannuncia con allegro cinismo il rapido trionfo della democrazia illiberale, ma se il suo regime anticipa lo scenario da lui auspicato forse converrebbe soprassedere. C’è Viktor Orban che non perde occasione per autoproclamarsi estremo baluardo della civiltà cristiana e argine provvidenziale contro i barbari invasori. C’è Jair Bolsonaro che in nome del sovranismo rivendica l’esclusiva sugli incendi in Amazzonia e l’umanità globalista non ha il diritto di protestare. E un posto ce l’ha pure lui, il populista incontinente Matteo Salvini, versione a fumetti di un regime che lo induce in tentazione, ma guai a parlare di fascismo; intanto emula a torso nudo il noto connazionale: evita però il faticoso lavoro con i covoni di grano e preferisce esibire la virile prestanza sulle spiagge assolate, dove annuncia l’adunata romana e “datemi i pieni poteri che ci penso io”. Ce ne sono poi altri: Recep Tayyp Erdogan impegnato nella pulizia etnica e a dimostrare per l’ennesima volta la mortificante incapacità di una vera politica europea; e c’è pure lo sgangherato e un po’ lisergico Boris Johnson che ha già dato prova, nella patria del parlamentarismo, di scarsa considerazione per la democrazia parlamentare.
Tutti questi signori si dichiarano per il sovranismo. E, tutto sommato, sarebbe una posizione rispettabile se si intendesse con ciò una vigorosa resistenza agli effetti perversi del globalismo neoliberista; e sarebbe altrettanto giustificato se ciò coincidesse con l’equilibrata difesa delle peculiarità e delle esigenze dei singoli Paesi nel rispetto delle organizzazioni e del sistema giuridico internazionali. Se non che il sovranismo esibito è tutt’altra cosa: nasconde un nazionalismo esacerbato, avversa la democrazia parlamentare e propugna l’arcidemocrazia che vuole consegnare tutto il potere al popolo, Vox populi vox dei. E basta con lo Stato liberale che pretende di subordinare la volontà popolare al rispetto vincolante della dignità e della libertà delle persone. Ecco: una cospicua parte del mondo è governata da questi figuri che pongono la sovranità popolare (che poi è la loro volontà) al di sopra di qualsiasi norma internazionale, negando di fatto il principio dell’universalità dei diritti e quindi promuovendo la discriminazione dei popoli.
Purtroppo tanti cittadini non si accorgono che stanno ingurgitando il paradosso di una illusione: quella di un futuro migliore costruito con il passato peggiore. Alla ragione, al pensiero critico, alla faticosa verifica preferiscono la cieca e stupida devozione al verbo del capo: che in genere è scarsamente illuminato dalla ragione.
La conseguenza di tutto ciò è una politica dell’odio, della differenziazione fra esseri umani, fra quelli che hanno diritti e altri molto meno, fra inferiori e superiori, fra noi e gli altri. È la progressiva disumanizzazione degli individui, ridotti dalla politica a numero, a entità astratta, a contingenti da smistare. Gli schiavi di ieri erano considerati dei “pezzi”, degli oggetti senz’anima. E noi oggi, più o meno inconsapevolmente, stiamo riesumando i “corpi senz’anima”: masse indefinite, evanescenti, dove non esiste l’individualità del singolo, con le sue passioni, le sue sofferenze, i suoi sentimenti. Da tempo è in atto un processo di estraneazione psicologica che genera una diffusa insensibilità collettiva, un’anestetizzazione della coscienza, una incapacità di immedesimarci con gli altri, di vivere la situazione degli altri. È una delle piaghe del nostro tempo, perché se noi ci convinciamo – come stiamo facendo – di non avere alcuna responsabilità verso gli altri, allora siamo veramente in guai grossi: il regresso civile è vistoso e marca un’involuzione di civiltà che sfocia nell’indifferenza generale. E l’indifferenza è una malattia morale che discrimina, che porta all’annientamento, alla riduzione e al nulla dell’esistenza dell’altro.
Nel 1945 l’Unesco ricordava opportunamente che la guerra appena conclusa era stata resa possibile dal disconoscimento dell’ideale democratico di dignità, di uguaglianza, di rispetto della persona umana e che il dogma dell’ineguaglianza faceva leva su ignoranza e pregiudizi. Nel 1978 constatava che il razzismo continuava a sorreggere la discriminazione, il colonialismo, l’apartheid. E oggi siamo daccapo.
Il fatto che la politica dell’odio non generi uno spontaneo moto di rifiuto, di ribellione morale, ci dà la dimensione di quanto sia avanzata la cancrena dell’indifferenza. Le identità di cartapesta, fatte di clamorosi tradimenti della storia, continuamente ribadite dal nazionalismo populista, servono soprattutto a tribalizzare i cittadini, a farli sentire membri di tribù chiuse e ostili, ad assassinare l’universalità dei diritti, ad erigere un muro psicologico di tradizioni inventate e convinzioni distorte che proteggono noi dagli altri, ad alzare una barriera oltre la quale l’indignazione e i buoni sentimenti si sfilacciano e svaniscono. È la conseguenza ultima della politica dell’odio: la demolizione dei principi di solidarietà e di universalità dei diritti.
I “social” danno l’inquietante dimensione del fenomeno: piovono i commenti rabbiosi, di insofferenza, perfino di ossessivo disprezzo verso i migranti e coloro che li soccorrono.
I lager di Libia – gli Auschwitz e i Treblinka dei tempi nostri –; le bare dei morti che si allineano a centinaia sulla banchina di Lampedusa; l’immagine di Aylan, il bimbo curdo senza vita sulla spiaggia di Bodrum; i morti che affiorano a centinaia nel Mediterraneo; e Mohammed, il ragazzino curdo bruciato dalle bombe al fosforo di Erdogan, quando ci sono sbattuti in faccia, danno un istante di sgomento, ma dura poco e poi voltiamo infastiditi la faccia dall’altra parte, come se quegli orrori non ci riguardassero perché narrano di fatti di un altro mondo, che non ci appartengono. Un’insensibilità che è il triste effetto della politica dell’odio, del dentro e fuori, del noi e loro. È il processo avanzato di progressiva estraneazione e degradazione della coscienza collettiva che uccide la compassione, sterilizza la nostra capacità di identificarci con l’altro, e ci trasforma nei solerti carnefici di ogni principio umanitario. E l’Europa invece di opporre alla cinica indifferenza e all’alterofobia escludente dei populisti sovranisti la fermezza della politica della solidarietà e della dignità umana che fa? Discute di contingenti, litiga sulle quote, distingue fra migranti economici e no, parla di numeri, tentenna, esita e non fa nulla, e tante persone continuano a morire. Nella confusione e nella generale ipocrisia degli egoismi nazionali si consuma il tradimento del sogno europeo dei padri fondatori. La signora Ursula Von der Leyen ha dato l’esempio, un pessimo esempio: ha deciso che il commissario all’emigrazione si dovrà chiamare commissario “alla protezione dello stile di vita europeo”. Un’assurdità, un’ammissione di resa alla chiusura che rappresenta una conferma del tradimento in atto. Ma la storia non perdona e prima o poi la generazione che regge la politica attuale dovrà rendere conto del suo operato, e non sarà un momento particolarmente glorioso.
La politica dell’esclusione, del rifiuto dell’unicità della comunità umana, della differenziazione fra chi sta sopra e chi sta sotto, ha rotto i tabù del razzismo che sembrava sopito e ne è la riprova il moltiplicarsi di episodi disgustosi di violenza verbale e fisica di inequivocabile stampo razzista. Già trent’anni fa, un sociologo francese osservava che i pregiudizi razziali stavano riprendendo vigore e che il linguaggio razzista stava entrando nella normalità.
Oggi il processo è concluso e lo sdoganamento del razzismo è cosa fatta. Ma c’è chi dice che guai a parlare di razzismo perché il razzismo non c’è. E in questo modo si legittimano i comportamenti razzisti, negando che lo siano. E infatti la frase d’esordio da chi ammette più o meno inconsapevolmente una qualche forma di discriminazione fra esseri umani è sempre la stessa: “Non sono razzista ma…”. “Non sono razzista ma ci invadono”; “Non sono razzista ma ci portano via il lavoro”; “Non sono razzista ma li dobbiamo mantenere”; “Non sono razzista ma si comportano male”; “Non sono razzista ma non sono come noi”, ecc. E anche sul territorio ticinese e zone limitrofe c’è chi si è dato da fare. Il governatore lombardo ha dichiarato di non essere razzista… ma la razza bianca è a rischio e dobbiamo ribellarci; la politica nostrana: non sono razzista, ma i bambini di colore che servono messa non è nelle nostre tradizioni….; il politico nostrano: non sono razzista, ma sugli spalti è lecito imitare il rappresentante dei primati quando si aggira il giocatore di colore; l’ex politico nostrano: non sono razzista, ma la croce celtica ci vuole e Hitler resta una guida; il poliziotto nostrano: non sono razzista, ma i migranti sono degli animali da prendere a fucilate…
Leggete il bel volume di Concetto Vecchio, “Cacciateli!” sui migranti italiani in Svizzera. Vi accorgerete che i pregiudizi di oggi nei confronti di “quelli che vengono da fuori”, in particolare di quelli dalla pelle scura, sono gli stessi che negli anni 70 dello scorso secolo, ai tempi di Schwarzenbach, colpivano gli italiani meridionali: “Vietata l’entrata ai meridionali e ai cani” qualcuno aveva scritto.
Il razzismo, lo sappiamo tutti, è un mero costrutto sociale e non ha alcun fondamento, ma non importa: serve. E collima perfettamente con le spinte populiste, con il malinteso sovranismo, con l’esaltazione della tribù comunitaria che vuole fare strame dei diritti uguali per tutti.
Viviamo in un periodo in cui la civiltà sembra regredire nel linguaggio, nei comportamenti, nei sentimenti e quello che solo pochi decenni fa era ritenuto deplorevole e abnorme oggi è la normalità, e questa nuova normalità intinta nel razzismo si esprime nella violenza verbale del linguaggio e nella violenza fisica della sopraffazione. “Eppure anche se non esistono razze, il razzismo continua ad esistere” osservava sconsolato lo scienziato Albert Jacquard. Appunto, esiste nonostante il tentativo di troppi di scansare il problema. E il fenomeno si sta allargando e lo percepiscono soprattutto quelli dalla pelle nera: lo subiscono non per quello che fanno, ma per quello che sono. Il colore della pelle è un atto di accusa e la condanna è scontata.
L’hanno sperimentato in tanti: il medico di colore, bravo, preparato, ma di pelle nera e quindi è un “medico di merda”, e “non mi faccio visitare”; la signora sul treno nel bellinzonese, è di pelle nera e quindi “non ti vogliamo qui”; il ragazzo di colore insultato sul bus con gli epiteti che ben conosciamo e i passeggeri tutti zitti; l’eritreo preso a pedate perché è eritreo, l’altro, sempre di pelle nera, ammanettato per ore alla doccia del bunker. Gli episodi di ordinaria disumanità sono innumerevoli e in rapida crescita.
E pure mio figlio, dodici anni, orgogliosamente svizzero e fieramente etiope, ha vissuto i primi effetti del degrado della coscienza civile. L’epiteto gli arriva improvviso, senza preavviso, senza un perché: “Vai via, negro di merda”. L’autore del giudizio poco gradito, un ragazzo, poi si scusa mortificato perché non riteneva di offendere: e capisco, perché ha semplicemente replicato il linguaggio della normalità che gli sta attorno e che ha sdoganato la parola greve, pesante, offensiva, il turpiloquio aggressivo e invasivo. È il registro linguistico che, secondo i populisti, viene incontro al parlar della gente. Non è un complimento perché presuppone che il parlar male sia una prerogativa della persona comune: non è così ma funziona. Abbiamo spiegato a nostro figlio che il turpiloquio in alcuni ambienti della politica è diventato sinonimo ingannevole di trasparenza, di onestà, di parlar sincero e purtroppo il concetto ha pure fatto scuola: la casistica degli insulti, che una volta pescava generosamente nel sacro e in antichi mestieri mai in disuso, oggi è soccorsa dai rigurgiti razzisti. È la normalizzazione della volgarità, e il razzismo in alcuni ambienti è la normalità. Abbiamo spiegato a nostro figlio che la scuola lo potrà aiutare a resistere e la cultura gli darà lo strumento per ribellarsi. È intelligente, ha afferrato e la risposta è fulminea e chiude il discorso: “Ho capito: il razzismo è stupido e bisogna combattere gli stupidi”. Giusto, ma la cosa non è agevole perché la categoria ha nutrite risorse. Ne approfitto per parlargli di due scrittori torinesi che, osservando l’avanzata degli imbecilli anche in politica, conclusero già parecchi anni fa che la prevalenza del cretino era un male difficile da estirpare: figuriamoci oggi.
Il razzismo è stupido, ma c’è, e stupido è pure chi lo riduce a poca cosa o addirittura lo nega. E infatti la troppa condiscendenza l’ha fatto risorgere. Con una distinzione. C’è il razzismo ideologico delle razze superiori e inferiori: ha forti connotazioni antisemite, e a quello si rifanno i movimenti neonazisti di ogni Paese, il nostro compreso: è in forte crescita, sfila nelle adunate e urla dagli spalti; la croce uncinata, il saluto nazista e i simboli di morte fanno parte del rituale. Ma il più insidioso e pericoloso, perché sottile, nascosto come un virus che si diffonde per contagio, è il razzismo spontaneo, inconsapevole; è un razzismo senza razza, cresciuto con i pregiudizi alimentati dalla politica delle contrapposizioni fra Noi e Loro, quello fondato sull’ignoranza dei cittadini disinformati che hanno rinunciato all’uso della ragione per credere che l’origine dei nostri guai siano gli altri, quelli che vengono da fuori. È il razzismo come riflesso di false percezioni diffuse ad arte e messe in circolo dalle destre estreme che sollecitano paure e insicurezze per ottenere consensi. È il razzismo fatto di frammenti di arroganza quotidiana, di cose non dette, di parole di insofferenza, di diffidenze, di piccole provocazioni, di inconscia ricerca del capro espiatorio. È il razzismo, appunto, di quelli che premettono “non sono razzista, ma….” e poi elencano le colpe di quelli che vengono da fuori. È il razzismo di coloro che sono convinti che quelli dalla pelle nera magari sono brava gente, ma non sono come noi, e tutto sommato un po’ inferiori lo sono. È il razzismo di quelli che quando parlano con un bianco che non conoscono gli danno rispettosamente del Lei; ma se l’interlocutore che non conoscono è di pelle scura, passano subito al tu perché cade la distanza fra pari e scatta inconsapevolmente il pregiudizio gerarchico fra superiori, noi, e inferiori, loro: allo stesso tempo il linguaggio si semplifica, il tono assume connotazioni paternalistiche e di sottile sufficienza. Anche questa è una forma di razzismo.
Mi dicono che esagero, che il fenomeno c’è ma è marginale e bisogna sfumare. Leggo con diligente attenzione il rapporto sul razzismo in Svizzera, pubblicato nel 2017 dallo Swiss Forum for Migration and Populations Studies, e mi convinco di avere ragione: conferma lo scostamento di civiltà, il passo indietro della cultura civile. E conclude che il lavoro da fare per recuperare il pieno rispetto dello Stato dei diritti è ancora tanto. E la politica? Ha enormi responsabilità per quello che fa e per quello che non fa e, a occhio, non sembra che negli ultimi tempi si in atto una redenzione generale: continuiamo a sprofondare nel fango. I giovani ci stanno indicando la strada, ma temo che dovranno fare ancora di più.