DISTRUZIONI PER L'USO

Fine pena mai. Il carcere a vita e i manettari

Una sentenza della Corte costituzionale italiana conferisce nuovi diritti a mafiosi e terroristi condannati all’ergastolo ‘ostativo’. Apriti cielo

26 ottobre 2019
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Per capire quale sia l’idea di giustizia che comanda in Italia, bisogna fare un bel respiro e leggere le reazioni a una recente sentenza della Corte costituzionale; la quale, accogliendo parzialmente le critiche della Corte europea dei diritti umani (Cedu), ha rimesso mano al cosiddetto ‘ergastolo ostativo’: ovvero il fine-pena-mai che priva il detenuto perfino dei permessi premio, della possibilità di lavorare fuori dal carcere, e di liberazione condizionale non parliamone nemmeno. È il caro vecchio ‘buttar via la chiave’, insomma: un trattamento potenzialmente “disumano e degradante”, secondo la Cedu, che peraltro la Corte costituzionale ha toccato solo di striscio: si chiede di concedere ai detenuti a vita almeno la possibilità di ottenere permessi premio. La possibilità, badate bene, non la certezza: spetterà poi al magistrato di sorveglianza decidere se il detenuto è ancora pericoloso o meno, ascoltando pareri di autorità come la Procura nazionale antimafia e antiterrorismo.

Frate Cipolla

Nessuna rivoluzione, per ora. Ma il fatto stesso di toccare un feticcio del genere ha destato un’esorbitante polemica. Questo perché il carcere a vita tocca un migliaio di mafiosi e terroristi, e costoro, per le solite tricoteuses, non sono mica esseri umani. L’immaginario corre subito ai magistrati morti, ai crateri sull’autostrada. I populisti lo sanno, e il solito Marco Travaglio scomoda “il sangue di Falcone, di Borsellino e delle altre vittime delle stragi”; trasformando così la memoria civile in falsa reliquia con l’insolenza d’un Frate Cipolla, e confidando nella distrazione dei suoi lettori quando dice che “in tutto il mondo l’ergastolo significa fine pena mai”. (Ma la possibilità di chiedere un permesso, o anche una revisione della pena, è concessa da quasi tutti i Paesi occidentali. In Svizzera l’eccezione dell’internamento a vita senza riesame – impulsivamente votata nel 2004 – nei fatti viene costantemente bocciata dal Tribunale federale).
Ma i fatti non contano più. “Sentenza diseducativa e vergognosa”, strepita paonazzo Matteo Salvini, annunciando subito un ricorso che però non potrà presentare, dato che la Costituzione lo esclude. Perfino il segretario del Partito democratico Nicola Zingaretti – alla faccia del garantismo – parla di sentenza “stravagante, non la condivido”. D’altronde gli tocca il ruolo di seconda gamba nel governo giallorosso, e quindi deve battere il tempo agli alleati cinquestelle; come il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, quello che si faceva i filmetti travestito da secondino accanto al terrorista Battisti in ceppi, e che già era furente con la Cedu per la precedente sentenza.

Collaborare

L’unico argomento un po’ solido è che in realtà un modo per uscire dal carcere a vita c’è: ‘Pentirsi’, come scrivono erroneamente molti giornali italiani, caricando di distorsioni moraleggianti la collaborazione di giustizia; detta meglio: fornire ai giudici nomi e informazioni per allargare le loro indagini. Però non è sempre possibile, ad esempio perché si rischia di mettere in pericolo la propria famiglia. Le sentenze recenti hanno dunque chiesto di disgiungere la “presunzione di pericolosità sociale” del detenuto dalla pretesa che diventi un collaboratore, per evitare discriminazioni. (D’altronde Giovanni Brusca, collaboratore di giustizia che fra le altre cose sciolse un ragazzino nell’acido e fece saltare Falcone, ha ottenuto ottanta permessi).

Cavalieri senza macchia

Ma con tutte queste precisazioni vi starete annoiando, e poi così si resta nel merito della questione, che alla politica – e a molti sanculotti che anche altrove ne attizzano i furori – non interessa davvero. La discussione sull’ergastolo è una scusa, l’importante è avere l’occasione di giocare ai paladini del pugno duro. Tirando così la volata a un’intera narrazione giustizialista: la presunta ‘onestà’ del MoVimento Cinquestelle; il decreto ‘spazzacorrotti’ che estende anche ai colletti bianchi pene draconiane, a costo di confondere l’ultimo funzionario con Al Capone; l’abolizione di uno strumento fondamentale di tutela degli imputati come la prescrizione (Guido Vitiello notava che ormai manca solo l’ereditarietà del procedimento penale, a mo’ di peccato originale). Una visione fatta di sbarre, manette e vendette – “Lo sanno a memoria il diritto divino / e scordano sempre il perdono” –, contrastata solo dagli ultimi cinque radicali in circolazione, e pochi altri in ordine sparso.

È poi lo stesso gioco che a volte si fa anche qui in Svizzera, ad esempio con gli stranieri e coi pedofili: si sventola il mostro e lo si trafigge in effigie, per atteggiarsi a cavalieri senza macchia e senza paura. Così si mietono consensi, ma si costringe la giustizia a preferire la punizione alla riabilitazione, la reclusione tout court alla faticaccia di dialogare con chi sarà anche un criminale, d’accordo, ma resta pur sempre una persona.