IL DIBATTITO

Legge, giustizia e dignità umana: alcune riflessioni

Continua il confronto stimolato dal caso Bosia Mirra. C'è un dovere di disobbedire a una legge se “ignora il carattere universale della dignità umana”?

Un dibattito stimolato dal caso Bosia Mirra (TiPress)
12 settembre 2019
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Ho letto con interesse la riflessione di Andrea Ghiringhelli sul rapporto tra legge e giustizia apparso su laRegione del 6 settembre.

Ghiringhelli sostiene che ogni persona abbia il dovere inderogabile di disobbedire a una legge ingiusta. Secondo Ghiringhelli una legge va disobbedita se “ignora il carattere universale della dignità umana”.

Questa tesi ha una sua ragionevolezza, ma non mi sembra del tutto convincente. In particolare manca una definizione della “dignità umana” che sia davvero universale e comprensibile per tutti.

Alcuni concetti richiamati da Ghiringhelli, come i “principi eterni di giustizia e pietà” o la “natura umana”, hanno senz’altro un loro fascino evocativo, ma non sono sicuro che abbiano per tutti lo stesso significato. Ci sono anzi sensibili differenze anche su questioni essenziali.

Nella discussione sull’interruzione di gravidanza non c’è neppure accordo su “cosa” sia una persona. Nel dibattito sull’eutanasia passiva i concetti di “dignità umana” e di “pietà” sono invocati indifferentemente sia da chi sostiene che sia legittimo interrompere le cure, sia da chi sostiene la tesi opposta. La storia dimostra che non c’è consenso neppure su questioni che sembra folle persino discutere.

Ne “I giusti” Albert Camus mette in scena il litigio all’interno di un gruppo di rivoluzionari dopo che un militante ha deciso di non portare a termine un attentato dinamitardo per non uccidere i nipotini della vittima designata: ”– Quando ci decideremo a dimenticare i bambini, quel giorno saremo i padroni del mondo e la rivoluzione trionferà. – Quel giorno la rivoluzione sarà odiata dall’umanità intera. – Poco importa, se l’amiamo abbastanza intensamente da imporla all’umanità intera e salvarla da sé stessa e dalla sua schiavitù.” (atto II).

Il dialogo è di un cinismo agghiacciante, ma non mi sembra così diverso da certe “ragion di Stato” che vengono talvolta invocate per giustificare le peggiori nefandezze.

Le mie convinzioni di cattolico

A scanso di equivoci sono convinto, come cattolico, che esistano, davvero, “principi eterni di giustizia e pietà”, immutabili nel tempo e nello spazio, ma sono altrettanto consapevole che: (1) alcuni non credono all’esistenza di principi assoluti (i relativisti); (2) altri credono all’esistenza di principi assoluti, ma diversi dai “miei”. Ogni tentativo di conciliare queste diverse concezioni è logicamente destinato all’insuccesso.

Il filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein, nella sua Conferenza sull’etica, disse che “l’etica, in quanto sorga dal desiderio di dire qualcosa sul significato ultimo della vita, il bene assoluto, l’assoluto valore, non può essere una scienza. Ciò che dice, non aggiunge nulla, in nessun senso, alla nostra conoscenza”. Insomma, chi sostiene l’esistenza di “principi eterni di giustizia e pietà” superiori alle leggi dev’essere consapevole di sostenere tesi para-religiose, con tutti i limiti del caso, soprattutto quando si tratta di imporre agli altri le proprie convinzioni.

Per questo motivo la tesi di Andrea Ghiringhelli secondo cui esisterebbe un dovere inderogabile di disobbedire alle leggi “ingiuste” mi sembra condivisibile se è riferita alle coscienze e alle anime, ma mi sembra problematica se a questo dovere si vuole dare (anche) una veste giuridica. Mi spiego: per un cattolico è per esempio evidente che l’obbedienza a una legge ingiusta (secondo i criteri cattolici) può avere delle conseguenze per la propria coscienza; in questi casi il cattolico deve quindi decidere se commettere un reato (disobbedendo alla legge) o commettere un peccato (obbedendole). Sarebbe però sorprendente se uno Stato, magari a distanza di anni, pretendesse di processare un cittadino per non avere a suo tempo disobbedito a delle leggi ingiuste di quello stesso Stato.

Il rischio è che ogni “epoca” si arroghi il diritto di creare i propri “principi eterni di giustizia e pietà” per poi imporli retroattivamente ai propri “antenati”, giudicandoli e punendoli secondo il proprio (nuovo) metro. Faccio fatica a trovare una conclusione: da un lato subisco il fascino di un diritto “eterno” che faccia da argine alle possibili derive della legge, dall’altro lato mi rendo conto che si tratterebbe di una “creatura” altrettanto umana e fallibile della legge, ma con l’aggravante di essere svincolata da qualsiasi controllo democratico. L’esperienza dimostra che minore è la democrazia in uno Stato, maggiore è la probabilità che si sviluppino leggi disumane e orrende.

Mi sembra quindi che la miglior strada per preservare i principi di libertà, uguaglianza e solidarietà alla base della dignità umana, sia innanzitutto quella di salvaguardare la democrazia e la sovranità popolare.

 

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