Una volta fake news e complotti folgoravano solo qualche sciroccato con la stagnola in testa. E adesso?
Le carte di credito di Soros ai migranti, i passeggeri dell’Aquarius che buttano nella spazzatura gli abiti della Croce Rossa, quelli che “dopo alcune ricerche su internet” insistono sulla tesi del rogo di matrice islamica a Notre-Dame. Il tutto nel consueto birignao del non-ce-lo-dicono, maledetti giornalisti. In un tempo non lontano, quando a internet ci si collegava con modem lenti e rumorosi – “quando le radio funzionavano a valvole e i bambini eravamo noi”, canterebbe De Gregori – cialtronate del genere avrebbero raggiunto pochi mattacchioni con la stagnola in testa. Ora possono rintronare rapidamente un numero impressionante di persone. Alcune testate ci vivono (ho preso gli esempi sopra da certi siti ticinesi). C’è perfino chi ci diventa presidente della Rai. Perché?
C’entrano i giornalisti e gli editori, certo. Quelli che rispondono alla crisi dei ricavi pubblicitari – monopolizzati o quasi da Google e dai social – cercando contenuti inaffidabili ma che ‘si fanno cliccare’ (espressione che dovrebbe spalancare sotto chi la usa un apposito girone dell’inferno); poi quelli che marciano sulle bufale per questioni propagandistiche, e magari si difendono in nome del ‘pluralismo’, dell’‘indipendenza’ e dell’‘imparzialità’, altre paroline infernali. Fingendo di non conoscere il vecchio adagio di Jonathan Foster: “Se uno dice che piove e un altro dice di no, il tuo mestiere non è citarli entrambi. È guardare fuori dalla finestra e vedere chi ha ragione”. Anche se naturalmente non è sempre così facile disinnescare una baggianata, ed è forse poco importante se nel frattempo un sistema globale ne genera mille altre.
Oltre ai media, comunque, la diffusione di notizie fasulle dipende molto dall’eliminazione di intermediari fra chi le produce e chi le legge: spesso non c’è di mezzo neanche un minimo filtro redazionale, e paccottiglia elaborata in modo semiautomatico arriva subito sullo schermo degli sprovveduti. In questo senso la responsabilità di Google, Facebook & Co. è enorme; non tanto perché bypassano gli organi di informazione ‘tradizionali’, quanto perché il canale che creano fra generatori di contenuti e lettori/spettatori non è affatto neutrale. Fornendo i nostri dati personali agli inserzionisti – è così che fanno i soldi, si sa – permettono loro di raggiungerci sempre col messaggio perfetto: e spesso il messaggio perfetto è quello che vellica i nostri pregiudizi. Nessuno prima era mai stato in grado di influenzare così tanto la nostra condotta, in quanto consumatori e in quanto elettori. La merce siamo noi, si dice sempre. Ma è anche peggio: siamo creta, che i più svelti hanno dimostrato di saper manipolare a loro piacimento.
Così, chiusi nella ‘bolla’ di un algoritmo che ci racconta solo quel che ci va di sentire, siamo esposti a campagne di disinformazione di origini spesso oscure. Il caso Russiagate e la Brexit sono lì a dimostrarlo (chi volesse approfondire può recuperare il discorso di Carole Cadwalladr al Ted di Vancouver, divenuto virale almeno nella mia, di bolla). È una situazione asimmetrica, nella quale chi voglia fare politica o informazione in modo leale si trova svantaggiato rispetto a Trump, a Salvini o ai populisti di casa nostra, che seguono la regola “la sparo grossa, faccio rumore e mentre mi smentiscono passo alla prossima”.
Nel recentissimo ‘Chiudete internet’, Christian Rocca fa il punto su questa involuzione del web “da utopia libertaria a distopia totalitaria”. Doppia distopia, per giunta: c’è la sorveglianza in stile ‘1984’ di Orwell, ma anche l’inebetimento sistematico descritto da Huxley ne ‘Il mondo nuovo’. Nonostante il titolo e il tono apocalittici, Rocca non è un nemico del web, anzi: è stato uno dei primi a padroneggiarne il funzionamento, quando nelle redazioni italiane si piangeva ancora la dipartita dei piombi. Ma ora mette in guardia da una disinformazione che snatura il vecchio concetto di opinione pubblica. In questo gioco la democrazia rappresentativa avvizzisce, assieme a qualsiasi tentativo di perorare l’autorevolezza di opinioni esperte e informate: è “la rivincita sociale di quelli che un tempo venivano derisi perché da ragazzini corroboravano le loro enormità con la prova regina del ‘me l’ha detto mio cugino’. Internet è ‘mio cugino’”.
Va detto che un po’ di colpa ce l’hanno anche i lettori (a scanso di equivoci specifico che lettori siamo tutti, e tutti a volte peccano di ingenuità: anche quelli che poi ogni tanto scrivono pure). Il difetto più diffuso è fermarsi ai titoloni, è abboccare a qualunque cosa soddisfi la propria pigrizia intellettuale e i propri ‘bias di conferma’, ovvero la tendenza a vedere solo ciò che avvalora quanto crediamo già di sapere. Ma si tratta di meccanismi psicologici e di carenze culturali che non nascono oggi. Semmai, l’esposizione diretta alle bufale rende necessaria la creazione di anticorpi sempre più potenti contro le manipolazioni. Non sono di quelli che incolpano la scuola per tutti i mali del mondo, ma un po’ di pratica in più con le fallacie logiche e la verifica delle fonti aiuterebbe.
In ogni caso una soluzione deve passare da scelte politiche. È importante che le piattaforme siano chiamate a controllare quello che ci passa sopra. Ma è altrettanto importante che chi vuole distorcere l’opinione pubblica – si tratti di media o di attori politici – si veda interdetta la possibilità di profilarla e di ridurla a cavia dei suoi esperimenti. Occorre poter tornare ‘opachi’. La recente normativa europea sulla privacy va in questa direzione, cercando di reintestare ai cittadini le informazioni che consegnano alle varie piattaforme. Ma si tratta ancora di difese più formali che reali: clicchiamo “ok” su mille moduli e ci dimentichiamo delle conseguenze, proprio come prima, e alzi la mano chi ha provato davvero a riprendersi quanto seminato in giro.
Intanto è positivo che si inizi a circoscrivere il campo d’azione di Google e dei social, spingendoli a cambiare condotta: è dell’altro giorno l’ultima soppressione di profili sospetti da parte di Twitter, che dall’anno scorso ne ha chiuse decine di milioni. E che cittadini e legislatori comincino, sia pure timidamente, ad arginare il nascente “capitalismo della sorveglianza” (il titolo di un ottimo saggio di Shoshana Zuboff). Tanto che perfino Facebook, questa settimana, ha promesso: “Il futuro è privato”. Vatti a fidare; ma è da lì che passa anche il futuro di un’informazione meno distorta. E di una politica meno sbilenca.