Facciamo leggi sulla trasparenza che ci difendono dal potere dello Stato, ma non ci curiamo quasi del fatto che c’è chi raccoglie molti più dati su di noi
La parola trasparenza è bella e va sempre di moda. Trasparenza del potere pubblico nei confronti del cittadino. Trasparenza nell’uso dei dati personali da parte dei big dell’informatica o, più in generale, da parte delle ditte di marketing.
C’è però qualcosa che non funziona. Sul primo fronte, quello più classico dei rapporti cittadino-Stato (dopo non poche difficoltà), è stata creata una base legale (in Ticino abbiamo la Lit, la legge sull’informazione e sulla trasparenza dello Stato) e possiamo dire che le cose cominciano a funzionare. Stando al rapporto 2017 della Lit, l’attività attiva da parte delle diverse autorità (comuni, cantone, consorzi di utilità pubblica,…) nell’informare la popolazione sul lavoro dello Stato attraverso comunicati, siti ufficiali o i media è in crescita; idem per l’accesso, a chi ne fa richiesta, a documenti ufficiali anche senza dover motivare la domanda.
Val la pena ricordare che la Lit ha uno scopo nobile: garantire la libera formazione dell’opinione pubblica e aumentare la fiducia nelle istituzioni. Un obiettivo importante perché, chi guarda alle nostre diverse amministrazioni, immagina colossi che sanno tutto di noi e degli altri per via delle innumerevoli informazioni che possiedono (tassazioni, registri fondiari e dello stato civile,…), e che detengono quindi anche parecchio potere nell’attribuire mandati o autorizzazioni di ogni genere. Poter accertarsi, grazie alla benedetta trasparenza, che tutti gli utenti sono trattati nello stesso modo, che non vi sono privilegi, fa bene al rapporto di fiducia cittadino-Stato.
Ma, dicevamo, c’è un ma. Mentre siamo sempre più esigenti nei confronti dell’ente pubblico – non è un caso se anche a livello europeo oggi entri in vigore una nuova legge a tutela della nostra privacy alla quale molto verosimilmente la Svizzera si ispirerà/allineerà –, ecco che i big dell’informatica del pianeta stanno facendo altri passi da gigante per conoscerci ancora di più: troppo e troppo da vicino! Uno di questi passi dentro le nostre vite è quello già sperimentato altrove, ma che presto potrebbe giungere anche in Svizzera, con l’introduzione su Facebook di un bottone che indica (anche ai propri amici ovviamente) che si è espresso il proprio voto.
Indicazione neutrale? Affatto! Informazione particolarmente interessante perché, oltre a tutti i dati che diamo in pasto ai social e che permettono di tracciare sempre meglio il nostro profilo, dopo quel clic sarà anche possibile sapere se esercitiamo il diritto di voto. E quindi potremo venir tracciati e nuovamente raggiunti da messaggi politici, oltre che commerciali. Di conseguenza verremo influenzati nell’esercizio dei nostri diritti (fondamentali) democratici.
Quest’evoluzione, molto preoccupante, è possibile anche (e purtroppo) grazie all’ignoranza di molti di noi e anche di gran parte di politici. Il gap tecnologico è micidiale. Sono spesso esponenti di generazioni ‘vecchie’ che si occupano di legiferare in materia battendo praterie digitali spesso insidiose e sconosciute.
Facciamo leggi sulla trasparenza che ci difendono dal potere dello Stato, ma non ci curiamo quasi del fatto assodato che c’è chi raccoglie molti più dati su di noi, senza che ce ne accorgiamo/occupiamo ed è ora persino in grado di interferire nelle nostre personalissime scelte politiche. Uno svegliarino non ci starebbe male. E un altolà legale anche.