Distruzioni per l'uso

Trattativa stato-mafia: fra politica e giustizia

La sentenza sui presunti negoziati fra Cosa Nostra e governo italiano riflette il mito di una giustizia salvifica. Con gravi conseguenze

(Guido Vitiello)
(La 'terza repubblica' spiegata ai bambini)
28 aprile 2018
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(Si ringrazia per l'illustrazione, ben più immediata e lucida di quanto troverete qui sotto, il padre weimariano Guido Vitiello)

Discutendo di democrazia, si dimentica spesso di osservarne un elemento fondamentale: il potere giudiziario. Errore fatale, come dimostra quanto accade nella “vicina penisola”. Dove il garantismo è stato sacrificato a uno Zeitgeist sempre più forcaiolo, e dove una parte della politica e della società civile ha creduto che potesse essere la magistratura a rimediare alle storture del Paese. Dopo l’arroccamento forzato del Pci nella bolla della questione morale, con Tangentopoli e l’ascesa del berlusconismo, fu anzitutto la sinistra a montare sulla sella di una magistratura ‘da combattimento’. Ma fu presto il cavallo a condurre il fantino, inaugurando una stagione di avvisi di garanzia scriteriati e inchieste bislacche, e sbilanciando sempre di più gli equilibri costituzionali a favore dello strapotere giudiziario.

Trattative e complotti

La stessa dinamica si è ripetuta con la presunta ‘trattativa stato-mafia’, pessimo esempio di feuilleton mediatico-giudiziario. La tesi: Cosa Nostra avrebbe piegato i governi alle sue richieste per concludere la stagione delle stragi, che costarono la vita a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, senza menzionare le bombe a Firenze, Milano e Roma. Ora i complottari hanno finalmente una loro sentenza, emessa la settimana scorsa dalla Corte d’Assise di Palermo. Secondo i giudici – togati e popolari -  alcuni carabinieri dei Reparti operativi speciali fecero in effetti da ponte fra la mafia siciliana e il governo: il comandante Mario Mori, il colonnello Giuseppe De Donno e il generale Antonio Subranni, condannati a 12 anni. 12 anni anche a un uomo di Berlusconi, Marcello dell’Utri. 28 anni al boss Leoluca Bagarella, 8 a Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco di Palermo Vito.

Per tutti tranne che per Ciancimino, condannato per calunnia, la condanna è per “violenza a corpo politico, amministrativo o giudiziario dello Stato”, reato contestato solo un’altra volta nell’intera storia repubblicana. Spiegato brutalmente: aiutando la mafia a ottenere quel che voleva (in particolare l’attenuazione del regime di carcere duro, il cosiddetto 41bis), Mori e i suoi referenti avrebbero ‘stuprato’ lo Stato. Giustizia! Giustizia! E consueto giro di champagne fra i manettari: Marco Travaglio parla di “processo di Norimberga allo Stato italiano”, l’aspirante primo ministro Luigi Di Maio annuncia che “con le condanne di oggi muore definitivamente la Seconda Repubblica” (chi si ricordi cosa successe alla morte della Prima, si abbandoni pure agli scongiuri di rito). 

Accuse zoppicanti

A questo trionfo della giustizia sul malaffare politico (vergogna! vergogna!) manca solo una cosa: la giustizia. Anzitutto perché le prove sono alquanto esili. L’impianto accusatorio poggia su testimonianze giudicate false da altri tribunali e sulle dichiarazioni di alcuni mafiosi. Tant’è che tutti gli altri processi sono finiti con un’assoluzione. E non si sa bene quali siano stati il contenuto e gli effetti delle presunte trattative, dato che l’accusatore chiave – Ciancimino, già condannato per associazione mafiosa e ora per calunnia: uno credibilissimo – non ha mai presentato il presunto “papello” con le richieste di Totò Riina allo stato. A buonsenso poi prima di comminare misure punitive così gravi la trattativa non deve solo esserci: deve ledere in modo grave il bene dello Stato. Difficile imputare un tale vulnus al mancato rinnovamento del 41bis per circa trecento detenuti: erano tutti pesci piccoli, la scelta di attenuare una detenzione altrove ritenuta tortura è perfettamente comprensibile, e non è provato che la scelta dell’allora Guardasigilli Giovanni Conso sia in alcun modo legata alla presunta trattativa.

Nel frattempo l’arresto di Riina segnava una sconfitta gravissima per il sistema mafioso. Ma a finire dietro le sbarre è proprio quel Mario Mori che arrestò Riina. Al “militare che ha catturato più mafiosi dai giorni dell’Unità d’Italia”, per dirla con Piero Sansonetti, si rinfaccia di avere ritardato la perquisizione del covo di Totò Riina e impedito l’arresto di Bernardo Provenzano, il successore.  Accuse per le quali Mori era già stato assolto in via definitiva, ma che a una giuria popolare come quella d’Assise – più avvezza ai processi mediatici che a quelli in aula – basta per indicarlo come ambasciatore della trattativa (si ricordi poi che la trattativa, di per sé, non è un reato: gli stati trattano spessissimo, per esempio, con terroristi e sequestratori, a maggior ragione quando tutt’attorno esplodono bombe e magistrati; la pretesa che boss e Carabinieri non entrino mai in contatto va bene al massimo alle verginelle grilline).

Manca un pezzo

Quanto agli interlocutori politici coinvolti – e parliamo di ben tre governi: Amato, Ciampi, Berlusconi -  semplicemente non li hanno trovati. Nonostante le manie di protagonismo di una procura che voleva perfino accedere alle intercettazioni del presidente Giorgio Napolitano. L’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino, accusato di falso per aver detto che degli incontri fra i Carabinieri e Ciancimino non sapeva nulla, è stato assolto. Certo, dopo il processo il pubblico ministero Nicola Di Matteo ha dichiarato al Corriere che “Dell’Utri ha fatto da cinghia di trasmissione tra le richieste di Cosa nostra e l’allora governo Berlusconi”. Peccato che un’altra sentenza abbia già escluso per Dell’Utri ogni “accordo politico-mafioso” per “gli anni successivi al 1992”, e che Berlusconi fosse addirittura parte lesa al processo, tanto che alla presidenza del Consiglio è andato un risarcimento plurimilionario. Insomma: non si capisce bene quale Stato sia stato coinvolto nella trattativa. Che però per i giudici c’è stata. E quindi tutti dentro.

In un paese nel quale gli atti della giustizia non sembrassero scritti da Dürrenmatt, condanne così gravi in assenza di un quadro più chiaro sarebbero impensabili. Non in Italia, dove le aspirazioni politiche di una parte della magistratura concorrono da decenni a sfornare sentenze mostruose. E dove la sfiducia nello Stato ha dato luogo a una miriade di leggende nere (anche perché lo Stato, in quanto entità astratta, non può difendersi.)

Toghe e poltrone

Il pm Di Matteo è già entrato in modalità dio-in-terra, come molti suoi predecessori. Prima come povero crocifisso, quando ha accusato l’Associazione Nazionale Magistrati di non averlo sostenuto (gli hanno dovuto far presente che il ‘sindacato’ dei giudici non è mai entrato nel merito specifico di un procedimento; e ci mancherebbe pure questa). Poi come messia, infilandosi in una fitta trattativa, questa sì sotto gli occhi di tutti, col MoVimento 5 Stelle. Tanto che si è candidato a diventarne ministro e ha presentato a nome loro un programma di riforma della giustizia.

Morale: la Terza repubblica invocata dai grillini segue un solco tracciato ai tempi di Mani Pulite. Una conquista del potere attraverso i repulisti e le forche. Demonizzando lo Stato e politicizzando la giustizia, o meglio: giustiziando la politica, sistematicamente subordinata ai capricci delle corti. Naturalmente a furor di popolo, perché come diceva Georg Büchner – la cui ‘Morte di Danton’ andrebbe mandata a memoria da ogni garantista - “il popolo è un Minotauro che deve avere ogni settimana i suoi cadaveri”. Una lezione da ricordare, non solo in Italia.