Tutti noi ce la prendiamo con qualcosa, da sempre: i calzini spaiati, le tasse, i finesettimana piovosi. Più preoccupante è quando quel risentimento diventa lo stato d’animo dominante di un’intera società. Quando ti svegli alla domenica (piove, appunto) e per prima cosa leggi su Facebook qualcuno che se la prende con la Nutella (o con le scie chimiche, con chi sbaglia i congiuntivi, col neoliberismo: fate voi). Scendi a prendere una boccata d’aria, giri l’angolo, e un giornaletto ti urla in faccia che “finiremo nelle riserve!”. Torni a casa che hai già voglia di un gin tonic, ma è presto. Apri le e-mail e uno ti invita a manifestare per dire ai politici di turno “t’aspetto fuori!”. Magari in nome della ‘società civile’ (si presuppone che esista anche una società incivile, e sia; ma a me viene difficile pensare di stare sempre e solo dalla parte giusta di una staccionata così alta).
Ultimamente, insomma, ci si sveglia tutti col piede sbagliato. Certo, è un ‘ultimamente’ un po’ lungo: la crisi delle ideologie, il deteriorarsi delle sicurezze del boom iniziarono già negli anni 70, quando Giorgio Gaber cantava che “la nostra impotenza, la nostra incertezza, ci limita a odiare senza nessuna esattezza”. Ma ora il livello della ‘tigna’ si sta alzando parecchio. È un po’ così che si coagula ‘La gente’, quella che dà anche il titolo a un bel resoconto di Leonardo Bianchi (Minimum Fax). La ‘gente’ quale soggetto politico amorfo, accomunato non dai bersagli del suo risentimento, quanto dal risentimento in quanto tale. ‘A prescindere’. Non più una classe o un gruppo sociale, e nemmeno un ‘popolo’. Che presupporrebbe quantomeno alcuni tratti e obiettivi comuni: in passato il popolo ha costruito la nazione “una d’arme di lingua d’altare”: ormai al capolinea, si spera, ma intanto ha fatto il suo.
Occhio, però: questa ‘gente’ non sono solo i complottari, gli antivaccinisti, i primanostristi, da guardare dall’alto al basso compiacendoci di noi stessi. La ‘gente’ siamo noi. Sarà la crisi economica, l’austerity, sarà che non ci sono più i politici di una volta (signora mia!). Fatto sta che la ‘gente’ è sì il Lumpenproletariat digitaloide, ma è anche il laureato frustrato, perché gli anni che ha buttato all’università non gli garantiscono una dignità. Ovvero quella ‘Classe disagiata’ sulla quale teorizza Alberto Ventura (sempre per Minimum Fax), “incatenata a un’educazione che la costringe a desiderare un’esistenza che non può permettersi, almeno a lungo termine”. Un’esistenza in cui anche l’istruzione diventa un bene di lusso: l’esibizione di uno status symbol che dovrebbe aprire le porte dei ‘salotti buoni’, ma che talora finisce per rendere molto meno di quanto non costi. “La classe disagiata combina i tratti della borghesia, e so- prattutto la sua ideologia, con altri tratti tipicamente proletari come la percezione di essere sfruttati e minacciati da un ‘esercito di riserva’ di lavoratori ancora più disperati”. Condannata, come Madame Bovary, a sognare sui libri un mondo che le è precluso. O a piangersi addosso.
Ci sono ragioni strutturali – e tragedie personali da rispettare in silenzio – dietro a tutto questo. Il diradarsi delle opportunità e della classe media sono fatti documentati. E non è certo esente da colpe quella classe dirigente troppo spesso inadeguata, che al solo nominarla fa scattare nella gente un ringhio pavloviano. L’élite. La kasta. Della quale si invoca spesso la distruzione, piuttosto che la sostituzione. Ma proprio qui si cela un errore potenzialmente mortale per la democrazia, la quale si basa sulla rappresentanza e quindi, piaccia o no, proprio su un’élite. “Tutti a casa”, ok: e poi chi ci mettiamo?
Se ne possono scegliere sicuramente di migliori – magari fosse, a volte – e l’imbarazzante attualità ticinese ce lo ricorda; ma non possiamo svegliarci alla mattina vantando ognuno il diritto incondizionato a prendere il posto di qualcun altro, come invocano gli avvoltoi del ‘gentismo’ politico e mediatico. Con tutto che nella vita è anche questione di fortuna, ci mancherebbe. Però non è mica vero che chiunque possa passare da una bettola a un ministero, che “uno vale uno” (tanto varrebbe dire, allora, che uno vale l’altro). Invece l’atteggiamento di oggi verso l’élite sembra quello degli ‘omarelli’, che passano la mattina a guardare ingrugniti l’operaio d’un cantiere, o di certi turisti davanti ai quadri di Pollock e Kandinskij: “Questo lo poteva fare anche il mio nipotino.” Ecco: no, fattene una ragione. Pensando così si ammazza non solo il privilegio, ma anche la potenziale affermazione del merito, per quanto realisticamente possibile. Ciò vale soprattutto per la politica, come diceva ai suoi elettori Edmund Burke: “Il vostro rappresentante vi deve non solo il suo impegno, ma anche la sua capacità di giudizio: e vi tradirebbe, se la sacrificasse alla vostra”. Parole dette da un conservatore, che oggi suonano ostinatamente progressiste.