È una frase che riecheggia in ogni luogo dell’Ucraina, dove tutti sentono grandi mancanze. Voci da dentro un conflitto che sembra diventato infinito
«Non riesco a ricordarmi l’ultima volta che ho preso un oggetto di legno come questo in mano. Forse ero al teatro ‘Afanasiev’ delle marionette di Kharkiv». ‘Artist’, questo il suo nickname, guarda rapito su YouTube un video che racconta la tradizione delle marionette siciliane. «Ci vuole un po’ di tempo per imparare. Molte persone pensano che questo tipo di teatro sia giocare con dei pupazzi per creare storie a uso e consumo dei bambini, ma in realtà è anche un teatro per adulti e non solo di marionette, ma anche teatro d’ombre, teatro musicale e tutto il resto. Il mio esempio preferito di teatro d’animazione è “Il Maestro e Margherita” di Bulgakov. Il diavolo sul palco viene rappresentato come enorme rispetto agli altri personaggi del racconto. Li sovrasta, li rende ancora più piccoli».
Aveva appena iniziato, lavorava in teatro facendo dei secondi ruoli, piccole parti. Artist mostra una foto sul suo cellulare. Il fisico minuto, con dei lunghi baffi neri da hipster. E poi un secondo scatto di qualche mese fa. A vederlo non sembra neanche lui. La guerra ti trasforma. Il suo corpo oggi è gonfio di muscoli, la sua barba e i suoi baffi sono lunghi e biondicci. Sembra un vichingo pronto a scendere sul campo di battaglia. Eppure, il suo pensiero, nonostante la scorza ormai indurita di un veterano di guerra, non si è abbrutito e i suoi occhi sono rimasti limpidi. «In questa foto sono io prima della guerra. E nella seconda, io lo scorso agosto. Ho perso qualche chilo, ma vado ancora in palestra. La guerra ha cambiato tutti, credo, in un modo o nell’altro. Ti toglie molto ma, è strano, ti dona anche molte cose. La guerra mi ha privato di grandi persone, mi ha tolto amici che ho incontrato sul campo di battaglia, altri che ho conosciuto prima dell’invasione. Ho acquisito molta esperienza in questo periodo. E se tutto quello che so oggi l’avessi saputo tre anni fa, le cose per me forse sarebbero andate diversamente».
Artist si gira verso uno dei suoi compagni e dà disposizioni per iniziare la missione. Lui e gli altri soldati sono nascosti da un filare di alberi. Siamo in un campo vicini al confine con la Russia, nella regione di Sumy. A terra, uno Shark, un drone da ricognizione. Ci sono computer, generatori, monitor. Devono lanciare il drone oltre il confine, individuare mezzi, postazioni, antenne di comunicazione e poi passare le informazioni a chi dovrà colpirli. Poco distante una grossa buca è stata scavata nel terreno. «Questa serve in caso di attacco nemico. Ma per i russi una squadra di ricognizione aerea come la nostra è un target succoso. Non useranno droni o artiglieria, ma missili e se arriva uno di quelli la buca non serve, siamo tutti morti». Insieme ad Artist c’è anche Andrii, una vecchia conoscenza sin dall’inizio della guerra. È stato appena nominato tenente e coordina il gruppo facendo la spola tra Sumy e Dnipro. «Quando iniziamo a sentirci in colpa per qualcosa, è solo quando la perdiamo», dice Andrii. Sta pensando di chiudere un capitolo della sua vita e aprirne un altro. Lasciare l’esercito, andare via con la sua famiglia, mollare tutto. Sono quasi tre anni da quel maledetto febbraio 2022. È stanco. Ed è lacerato, diviso. I suoi uomini, i suoi soldati, hanno bisogno di lui. La sua famiglia ha bisogno di lui. Sono tutti stanchi in questo Paese. E tutti sono in debito con qualcuno o in colpa per qualcosa.
Nel giugno 2022 a Kyiv, un gruppo di familiari di soldati del reggimento Azov piantarono in una aiuola di Maidan cinquantacinque bandierine gialle e blu, una per ogni militare scomparso. Un tributo spontaneo in un luogo carico di significati per il popolo ucraino. Oggi quelle bandiere sono diventate migliaia. Giorno dopo giorno, mese dopo mese, questa marea colorata continua ad allargarsi. Ormai più di mille giorni di morte e distruzione portate dalla Russia. Nel prato ci sono anche altre bandiere: vessilli inglesi, americani, francesi e di altri Paesi. Qui, come nei cimiteri, è continuo il passaggio di persone che vengono a rendere omaggio ai caduti. Famiglie, commilitoni, donne con gli occhi gonfi, esausti dalle troppe lacrime versate. Due soldati della Legione internazionale stanno strappando i fili d’erba cresciuti davanti alla fotografia di un loro compagno ucciso in combattimento. Uno dei due viene dallo Sri Lanka. Ha un braccio ingessato. L’altro è neozelandese. Dietro di loro, il traffico di Kyiv che sembra scorrere ignaro della tragedia che si consuma a poche centinaia di chilometri da questa città pulsante di vita. Ma è solo un’illusione. Un momento di pausa. Tutto ricomincia da capo quando arrivano i droni su Kyiv e il sangue si gela nel sentire in avvicinamento il loro rumore di morte, smorzato solo dalle esplosioni della contraerea.
«Finirà mai questa guerra?» si chiede Katia, una giornalista ucraina che ha vissuto in Italia mentre chiacchiera della sua vita davanti a un borsch fumante, che si raffredda mano a mano che il suo raccontarsi diventa un fiume in piena lasciando in secondo piano il suo appetito. «Io non so, dopo dieci anni di occupazione in quelle terre del Donbass, cosa possano capire le persone di questo conflitto. Sono ostaggio della propaganda di Mosca e non riesco a immaginare come possano essere cresciute le nuove generazioni sotto di essa». Qualche giorno di pausa su Kyiv, gli allarmi per il momento non suonano. Sarà tutto normale fino al prossimo attacco aereo. Da Kyiv, andando nell’Est del Paese, a Kharkiv, sono quasi 500 chilometri eppure il sentimento più diffuso, oltre alla stanchezza di un conflitto che sembra diventare infinito, è quello della mancanza di fiducia, più che motivata, nei confronti della Russia.
«Il punto è che anche se apriremo un tavolo di trattative con Mosca, come sarà possibile credere loro senza avere delle garanzie? E chi garantirà il rispetto di questi accordi?», dice un uomo in un pub del centro. Racconta che non prende mai la metropolitana perché ha paura di essere fermato per un controllo e finire nelle liste dei mobilitati. «Anche se ho una invalidità a una gamba per un incidente, di questi tempi non si sa mai».
Kharkiv è tornata sotto il mirino di Mosca. La città viene colpita numerose volte dalle Kab, le ‘bombe volanti’ sganciate a distanza dai caccia russi e dai missili balistici. Com’era questa città prima della guerra? Quella che vediamo adesso, nonostante il rientro di molte persone e la riapertura di centri commerciali e negozi, ha solo una parvenza di normalità. Il terrore è sempre dietro l’angolo. I russi premono anche a est, per riprendere il controllo della città di Kupyansk, sono ormai alle sue porte. E ovunque, come qui, il copione è sempre lo stesso: città vuote, palazzi distrutti, evacuazioni di persone e animali. Silenzio. Come a Pokrovsk, in Donbass un luogo ormai popolato da pochi fantasmi che si muovono lungo le sue vie. Il piccolo centro commerciale, i ristoranti, i negozi, gli uffici pubblici, sono tutti chiusi. L’hotel Druzhba è un mucchio di macerie. Era uno degli hotel preferiti dai media internazionali. Era l’8 di agosto del 2023. Un anno dopo, sembra di vedere un déjà vu. Viene colpito l’hotel Sapphire di Kramatorsk. Altri morti e feriti. Succede sempre così quando i russi si avvicinano. Tutto diventa grigio, freddo, inanimato. Il ponte di ingresso alla città è saltato, centrato da un missile.
Da qualche parte, in un luogo segreto sottoterra, opera l’unità medica del battaglione Da Vinci. Dentro c’è un andirivieni di persone che si muovono lungo uno stretto corridoio. Un gruppo di medici sta tentando di tenere in vita un soldato che ha ricevuto ferite multiple da schegge di granata. Persone si muovono frenetiche intorno a un tavolo della sala operatoria. Darina è medico anestesista. Prima della guerra prestava servizio in un ospedale civile nella città di Dnipro. Il paziente viene stabilizzato, deve però essere inviato in un secondo ospedale, più attrezzato. Nell’altra sala un soldato si lamenta per una ferita al braccio. «Volevo arruolarmi già dal 2022, non ho una famiglia e non sono sposata – dice Darina –, ma purtroppo ho avuto un infortunio al ginocchio e sono rimasta bloccata per diversi mesi. Un altro motivo è che mancavano anestesisti negli ospedali civili, parte del personale medico era infatti riparata all’estero. Ma alla fine mi sono decisa. Non è da tanto che mi trovo qui, dal primo di settembre. Non vedo i miei genitori da circa tre mesi ma siamo comunque in contatto. Mia madre è preoccupata, le scrivo sempre che va tutto bene, non ha bisogno di sapere tutto». A Darina manca Afina, la sua gatta, uno Scottish Fold. «Il mio sogno? Che la guerra finisca. Vorrei tornare alla mia vita civile, al mio lavoro. Non posso dire che la mia vita civile non mi manchi. Ma ora devo stare qui e fare del mio meglio per salvare le vite dei nostri soldati. Amo questo Paese e voglio vivere in un Paese libero».
A tutti manca qualcosa, tutti si sentono in colpa. Come Anastasia, infermiera, venuta fin qui dall’oblast di Cherkasy. «L’unica cosa che mi fa male è che mia figlia sta crescendo senza di me. Vorrei solo che tutto finisse e vorrei tornare a svegliarmi pensando solo alle cose di tutti i giorni: il lavoro, la scuola, la spesa da fare». Quando iniziamo a sentirci in colpa per qualcosa, è solo quando la perdiamo. Questa frase riecheggia in ogni luogo dell’Ucraina. Succede anche qualche chilometro più a sud di Prokrosk, nel villaggio di Schevchenko, in mezzo a file interminabili di trincee vuote e fossati anticarro. Tra qualche settimana si riempiranno di soldati, in attesa del nemico. Seconde, terze, quarte linee che diventeranno le prime quando quelle più avanti cadranno. Il nemico avanza. I morti russi sono ovunque. Il villaggio ha subito numerosi bombardamenti.
Dentro l’edificio scolastico ci sono libri e macerie ovunque. Su un muro di un’aula c’è il volto del letterato ucraino Taras Shevchenko e una scritta: «Se vuoi avere successo studia». La scuola è vuota da più di due anni. Nessuno più studia, qui. Poco distante, si sente sparare l’artiglieria ucraina sulle posizioni russe. Dall’interno di un edificio pericolante arriva il vociare di un gruppo di uomini. Stanno discutendo su come ripristinare un muro. Devono proteggere una pompa idraulica dall’arrivo del gelo. «Era la stazione idrica questa. I russi l’hanno colpita. Il paese è senz’acqua ma fortunatamente ci hanno portato questa cisterna – racconta Mikolay –. L’acqua però adesso è l’ultimo dei problemi. Non dormiamo la notte. Anche di giorno è uguale, sentite i colpi di artiglieria? È così tutti i giorni. Noi i russi non li aspettiamo di certo, ma se arrivano per noi sarà solo un semplice cambio di padrone. La nostra terra ha già sofferto tantissimo. Abbiamo vissuto bene questi anni in Ucraina ma se arrivano cercheremo di sopravvivere. D’altronde abbiamo già vissuto sotto l’Unione Sovietica gran parte della nostra esistenza. Questa è la vita. Non vogliamo lasciare la nostra terra. Dove andiamo, dove scappiamo? Molti hanno lasciato la loro casa e poi sono tornati. Non c’è nessun senso nell’andare via, nel perdere la propria casa. Mia figlia ha lasciato tutto ed è andata a Kyiv con mio nipote. È sicura lì?».
Una donna trema come una foglia a ogni colpo di artiglieria che viene sparato. Ha i nervi completamente a pezzi, gli occhi sbarrati. È stanca, sono tutti stanchi dopo mille giorni di guerra. A Mikolay la voce si rompe, si blocca, inizia a deglutire. Gli occhi si riempiono di lacrime. «Mio figlio è scomparso. È successo due anni fa, lo stiamo ancora cercando. Pensiamo sia stato catturato. Lavorava alla miniera. Qui tutti lavorano alla miniera. Era di guardia a un checkpoint, nelle retrovie, e poi un giorno lo hanno mandato al fronte. Non ho più saputo nulla di lui. Mia figlia vuole portarmi nella capitale, ma anche lì bombardano. Non so dove andare per sopravvivere. Qualunque cosa faccio, non posso sfuggire al mio destino».