Reportage dove ogni pietra trasuda storia e racconti. Ascoltando muezzin in quello che è uno scacchiere di un Eden (pare) irraggiungibile.
Da Amman a Gaza ci sono 145 chilometri, la stessa strada che separa Bellinzona da Lucerna. Lì, in quella terra dove ogni roccia trasuda storia e racconti, la vita scorre tranquilla: gli innumerevoli suk sono animati da persone e colori, le strade della capitale ingorgate come qualunque metropoli occidentale, il cielo sereno, in quella che, a ottobre inoltrato, è ancora un’estate.
Fra Africa e Asia, la Giordania si pone nel mezzo, anzi, come ci dice Salah, guida turistica per hobby, di professione consulente immobiliare, «africani o asiatici? Non abbiamo questo sentimento, o sei arabo o sei europeo o americano, noi siamo arabi». Il vento di guerra che soffia da ovest pare lontano. In viaggio fra mari e deserto, fra siti archeologici e patrimoni dell’Unesco, ci si sente sicuri, decisamente protetti da una popolazione che vede nello ‘straniero’ una preziosa fonte di ricchezza e di rivincita sulla miseria.
Le donne, come la scelta della stessa regina Rania, sono libere di indossare quello che vogliono, e nessun velo, e nessuna mentalità talebana e bigotta, le tiene ‘prigioniere’. Qui, una delle sette meraviglie del mondo, Petra, attira ogni anno milioni di turisti. Molte delle volte è tappa proprio da quella regione che è oggi protagonista di un conflitto duro e violento, la Palestina. «Il luogo più sacro, dove tutte le religioni sono nate, terra della pace che non vede la pace» è il commento, desolato, di Salah. Fra Allah e Cristo, del resto, ci sembrano più le similitudini che le differenze. Siamo figli di uno stesso Dio? È la domanda che rivolgiamo a quanti incontriamo in questo cammino di conoscenza reciproca: «Le religioni sono pacifiche, sono gli uomini il vero problema – è la parola di Muath, autista –. Allah è più vicino a noi dell’arteria che arriva al cuore e più misericordioso di una mamma. Come può allora averci impartito la violenza?».
Nazione intrisa di religione, tanto da dedicarle un ministero (e per oltre il 97% composta da fede islamica), la Giordania vive soprattutto la delicata dicotomia fra sunniti e sciiti, piuttosto che fra musulmani, cristiani ed ebrei (diverso è il rapporto e le posizioni con il sionismo): «Noi siamo musulmani sunniti e i sunniti sono moderati – ne parliamo con il cameriere di un bar di una trafficata via della capitale, Mohamed –. Io pratico la mia religione, tu pratichi la tua. Io non ti obbligo a seguire la mia come tu non lo fai con la tua. Con gli sciiti è diverso. Nella storia sono sempre stati un coltello nella schiena dei musulmani. Lo stesso Iran, che lancia strali contro l’America, non attaccherà mai Israele, in fondo sono sempre stati legati agli Stati Uniti, lo abbiamo visto con l’Iraq. Quello che esprimono sono solo capricci, giusto per rimarcare, come si dice da noi, che non sono il primo ‘cane’ di Washington, ma contano anche loro qualcosa...».
La bandiera sventola sul sito di Petra
Salah, che ci guida nelle bellezze di questo lembo del mondo, si ferma un attimo. È l’ora della preghiera, uno dei cinque momenti del giorno, quando, accompagnate da inchini, si alzano ad Allah le intenzioni e si leggono frasi del Corano: «Colui che prega deve essere una persona buona, perciò la guerra non può avere posto». Una battaglia, come lo stesso stare al passo, quotidianamente, dello stravolgimento continuo delle ore per la ‘salat’, dall’alba al mezzogiorno, dal pomeriggio al tramonto fino alla sera. Quasi impossibile da ricordare: «Come facciamo? – sorride il nostro interlocutore –. Ma c’è l’app!», scoperchiando un mondo arcaico farcito di modernità e tecnologia. Lo stesso è per il Ramadan che, il prossimo anno, cadrà il 12 marzo: «Il primo marzo nel 2025. È legato alla Luna – ci spiega –, a volte così cade in estate a volte in inverno, e quando cade nella stagione calda, qui è molto dura. Si arriva a digiunare 17 ore! Io lo faccio da quando avevo sei anni. Oggi che ho oltre mezzo secolo comincio a pensare all’incontro con Allah, e, Insciallah, se continuerò a fare bene nella mia vita sarà bello incontrarlo». Il Cielo però può attendere. Ora è tempo piuttosto per l’inferno, con Israele da una parte, Gaza e la Gisgiordania dall’altra. Che idea avete di questa centenaria tensione? «Fondamentalmente pare che non si voglia la pace» è la spiegazione di Kamila, che in italiano significa perfetta, tanto da cozzare con l’attuale situazione mediorientale ed evocare diversamente una tempesta devastatrice. La conosciamo in una bottega dove si confezionano gioielli con la pietra giordana per eccellenza, l’avventurina. Ci dicono che, a chi l’indossa, porti tranquillità e doni gioia di vivere, ottimismo e pazienza. Solo una credenza? Non ci pare, confrontandoci con lo stile di vita di questo mite e docile, nel senso più positivo del termine, popolo.
Ma torniamo alla guerra in corso e alla sua lettura: «Chi supporta gli ebrei lo fa per mantenere un palo ben conficcato nel mondo arabo – annota il guardiano di una delle tante moschee di Amman –. Molti Stati attorno a noi sono filo-americani, e per altrettanti l’indipendenza sta solo nel nome, perché resta una chimera... Con la Palestina abbiamo sempre avuto buoni rapporti di lavoro, anche se recentemente la cifra d’affari da 2 miliardi di dollari è scesa a 100 milioni. Israele lì ha un grosso potere e per loro resta un ottimo mercato che gli porta oltre 4 miliardi di dollari». Una guerra di supremazia e interessi? «Resta uno scontro di religioni – continua Salah, molto dentro, seppur con discrezione, alla questione sionista, tanto da diventare un fiume in piena di informazioni –. Lo stesso Hamas, il Movimento islamico di resistenza, di fondo è un’idea, ma non dovrebbe essere né fanatica né un’organizzazione terroristica. Cosa rappresenta allora? La paura, la fame della gente, la voglia di tornare a vivere anziché restare chiusa e prigioniera nelle loro stesse case. Se negli anni 90 si fosse realmente realizzato quell’accordo di pace, Hamas non sarebbe mai nata. Certo che nessuno, fra i musulmani di fede, condividono la violenza. Ma se hai una malattia cosa devi curare? I sintomi o quanto l’ha scatenata? Ecco, qui la causa è l’occupazione. Ci sono state più di cento risoluzioni delle Nazioni Unite che, soprattutto, gli israeliani non hanno mai voluto applicare. Lo dice la loro stessa bandiera: le strisce azzurre indicano da mare a mare, ovvero un territorio dal Mediterraneo al Nilo. Cosa significa? Non gli basta Gaza e la Gisgiordania, vogliono anche la Giordania, la Siria, l’Arabia Saudita e l’Egitto».
Il discorso si fa teso e complesso, restiamo dunque sulla Cisgiordania: «Doveva essere libera, è occupata invece da Israele per il 60% del suo territorio, su cui vi sono almeno duecento check point. Un palestinese per muoversi in una porzione così piccola ci mette anche tre-quattro ore. Se prima erano più di 18mila i palestinesi che si recavano in Israele per lavorare, oggi sono solo 4mila». Resta il nodo degli attacchi, definiti da buona parte del mondo, terroristici. Come giustificare quelle fredde uccisioni e quei rapimenti di civili, perlopiù anziani e giovani indifesi, per opera di Hamas? «La popolazione araba considera quegli attacchi una reazione. Del resto lo stesso Corano insegna che l’omicidio è peccato. Eppure, come mai dite del presidente ucraino Volodymyr Zelensky che è un eroe e che fa bene a combattere per la libertà del suo popolo, mentre in Palestina, dove si vive la stessa situazione da decenni, si parla di terrorismo? Quando si ignorano alcune vittime rispetto ad altre, non si può costruire una pace vera. La si sarebbe dovuta avere già nel 1993, quando Yasser Arafat, presidente dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina, il ministro degli Esteri e il premier israeliani, Shimon Peres e Yitzhak Rabin, avevano intessuto importanti sforzi per creare la pace in Medio Oriente, impegno, il loro, premiato con il premio Nobel per la pace. In quella stretta di mano però c’era tutta l’illusione di una pace che non sarebbe mai arrivata, e i fatti di oggi, se ce ne fosse bisogno, ce lo confermano, nuovamente. Eppure in quella stessa occasione hanno passeggiato insieme e mangiato falafel. Credetemi, la gente musulmana dimentica, non porta rancore. Se oggi qualcuno dicesse di volere la pace, tutto il male terminerebbe. Ma dobbiamo confrontarci, purtroppo, con il fanatismo, che non è mai da una parte sola».
La stessa Cisgiordania è del resto un melting pot pronto in ogni momento a deflagrare. Secondo il censimento Onu del marzo 2023, sono circa 279 le colonie israeliane, fortemente volute dai governi dal primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Un terzo è stato costituito per motivi ideologici, mentre la rimanente parte si è insediata grazie agli incentivi economici di Israele: «Lì dove, invece, doveva essere terra interamente palestinese... Ditemi dunque, se uno si impossessa della tua casa per l’80% lasciandotene solo il 20, e poi successivamente torna alla carica per il rimanente, cosa direste? I palestinesi, già dispersi in tutto il mondo (sono 10 milioni), fra Gaza e Giordania sono rimasti in 5milioni. Io credo che questa volta non accetteranno più di andarsene. Lì rimarranno, Insciallah».