In missione in tante zone di guerra per ‘Medici Senza Frontiere’, la professionista Julia Schürch racconta luci e ombre di una missione di vita
«In guerra si vede il peggio ma anche il meglio dell'umanità. Persone ordinarie possono diventare eroi». Incontriamo una donna, un medico d’urgenza, la dottoressa Julia Schürch che ha coordinato per 5 anni dal 2013 con MSF (Medici Senza Frontiere) e altre organizzazioni umanitarie molte missioni, sempre in prima linea in conflitti tanto cruenti, quanto dimenticati, in Paesi come Afghanistan, Iraq, Pakistan, Filippine, Haiti, Sudan, Repubblica Democratica del Congo, Brasile, Indonesia e altri ancora. Il suo compito principale: organizzare un pronto soccorso da campo o un ambulatorio sia indipendente sia attaccato a un ospedale. L’internista che oggi lavora alla Clinica Sant’Anna di Lugano, non si è mai scoraggiata nemmeno davanti a situazioni davvero estreme. «Eravamo spesso tra i primi ad arrivare in zone di conflitto per organizzare i primi soccorsi. Ricordo una donna in Congo, era stata aggredita a colpi di machete al collo. Eppure ha trovato la forza di camminare per ore e raggiungere la nostra clinica. Mi ha toccato la forza di questa donna. Lei ce l’ha fatta! In Iraq, come in tanti altri posti, mi ha colpito anche la generosità di una famiglia numerosa, che pur avendo perso tutto, ha saputo dividere il nulla che aveva coi figli dei vicini uccisi dalle bombe. Sono storie che ti cambiano la prospettiva sulla vita» ci racconta la dottoressa, che terrà una conferenza a Lugano il 3 ottobre (vedi box). Il suo sogno ai tempi dell’università a Friburgo e Basilea era quello di lavorare per Medici Senza Frontiere. Un sogno realizzato, una vocazione che l’ha interpellata profondamente. «La vita è stata generosa con me. Mi ha donato salute, sicurezza, un lavoro. Volevo poter restituire qualcosa e aiutare chi ha perso tutto e rischia di venire dimenticato».
Non è stata casuale la scelta di Medici Senza Frontiere, un’organizzazione non governativa con 45mila impiegati, 462 progetti in 72 Paesi, che offre soccorso d'emergenza alle popolazioni prive di accesso all'assistenza sanitaria, vittime di conflitti armati, epidemie o catastrofi naturali. «È un’organizzazione con una logistica molto efficiente, in grado di costruire un ospedale gonfiabile in 24 ore e di far arrivare farmaci e kit chirurgici in tempi molto brevi. Ma soprattutto garantisce a pazienti e medici una certa sicurezza», dice la dottoressa. Almeno ci prova. Perché aumentano gli attacchi ai cordoni sanitari. «Avere professionisti stranieri sul posto aiuta anche il personale locale. Il 90% delle persone attive nelle strutture di emergenza sono professionisti locali, formati per dare supporto al team».
Da diversi anni gli attacchi al personale curante sono aumentati drammaticamente. Tra le 2 e le 3 della notte del 3 ottobre 2015, l’ospedale gestito da MSF a Kunduz è stato colpito ripetutamente dai bombardamenti di un aereo da guerra, che per cinque volte è passato sopra l’edificio che ospitava l’ospedale. La città in quei giorni era contesa tra le forze di sicurezza afghane e i talebani. Sono morte 22 persone. La dottoressa Schürch aveva lavorato in quell’ospedale. «In una notte ho perso molti colleghi e amici. Distruggendo il sistema sanitario si colpisce una comunità al cuore. Gran parte del lavoro lo fa il personale locale, sono loro gli eroi. Quella notte dopo aver bombardato l’ospedale, dagli elicotteri i militari hanno ucciso i sopravvissuti che scappavano».
Si agisce in questi contesti, salvando vite si rischia la propria. «La prima reazione è di rabbia, tanta rabbia. Quando lavoravo in una delle favelas più pericolose di Rio de Janeiro siamo stati attaccati dalle forze speciali. Lo stesso è successo in un laboratorio, in un campo profughi del Darfur. Come in tanti posti di guerra in Congo i ribelli volevano le nostre auto. Erano preziose per la guerra. Una mia collega è rimasta a piedi», racconta.
Essere donna in mezzo a conflitti cruenti non è certo facile. «Non ho mai avuto paura di morire, ma ho temuto di venire violentata. Per fortuna non è successo. Ho sempre portato i capelli molto corti, potevo quasi passare per un uomo», racconta. Anzi, essere un medico donna ha dei vantaggi. «Nei contesti mussulmani (in Afghanistan, Indonesia, Iraq) come medico donna e straniera, ero collocata socialmente a un livello alto. Potevo visitare le donne ma anche gli uomini. Come donna, non mi era permesso stringere la mano agli uomini ortodossi ma potevo visitare il loro corpo per curarli. Questo mi faceva sorridere».
MSF
La dottoressa in Afghanistan
MSF
Sapersi muovere tra culture diverse, senza inciampi, è determinante. La tensione è sempre alta, anche un piccolo errore può compromettere una missione. «In Afghanistan abbiamo creato un ambulatorio in un ospedale pubblico. Facevamo il triage dei pazienti seguendo le regole internazionali, ossia dando la priorità a chi stava peggio e non a chi era più ricco o potente. Un piccolo errore, come non riconoscere e non dare la precedenza a un generale malato, poteva mettere in pericolo l'intera missione. I colleghi locali ci aiutavano a capire come comportarci, dipendevamo al 100% da loro per la sicurezza». Una sicurezza costruita con la buona reputazione, non con le armi. «Di regola, il nostro buon lavoro è la nostra sicurezza. Tutte le parti nel conflitto sanno che possono inviarci i feriti, tutti hanno bisogno di noi. Inoltre si vive come in lockdown, tra casa e ospedale».
MSF
La dottoressa in Afghanistan
Davanti a tanti sacrifici, sofferenza, ostacoli, rischi… si deve avere una forte motivazione per continuare ad andare in prima linea. «Partire non è mai un problema. Ci vuole chi lo fa, chi sappia dare speranza a chi vive in conflitti dimenticati dal mondo, come la guerra in Congo, in Darfur, la guerra civile nelle Filippine. La parte più difficile, non è partire ma tornare in Svizzera. È difficile vivere nell’agio sapendo quanto poco hanno gli altri. Non sopporti più tanti sprechi. Psicologicamente è difficile andare e venire».
MSF
A Sumatra dopo lo Tsunami
‘Lavorare e vivere nelle zone di conflitto’ è il titolo della conferenza che terrà la dottoressa Julia Schürch, internista e medico d’urgenza, il 3 ottobre (ore 18.30 alla sala conferenze della Clinica Sant’Anna a Sorengo). Sarà l’occasione per capire come Medici Senza Frontiere (MSF) aiuta vittime di conflitti, catastrofi, arrivando con molta professionalità laddove mancano cure mediche. Nata 50 anni fa dopo il dramma del Biafra e fondata da medici e giornalisti, MSF ha un duplice scopo: curare e testimoniare. «Può farlo perché è indipendente, al 96% è finanziata da donatori privati che sono la nostra linfa vitale. Visto che il Ticino mostra sempre la sua generosità ci teniamo a restituire il racconto di quante vite possiamo salvare grazie ai nostri donatori», precisa la dottoressa, che da 20 anni vive in Ticino, dove è stata attiva in quasi tutte le strutture sanitarie del Luganese (ospedale Civico, Moncucco, Croce Verde, Rega e adesso Clinica Sant'Anna). «Raccontare le missioni – conclude – è un modo per graziare e per aprire una finestra su vite, conflitti, catastrofi spesso dimenticate, dove non vogliamo che si spenga la speranza».