Incontro con Chiara Landi, sindacalista e militante femminista: ‘Magari sopportiamo più a lungo, ma quando reagiamo la nostra forza è prorompente’
Prosegue il cammino verso l’8 marzo con ‘L’unica donna nella stanza’, il progetto nato come podcast (disponibile sul nostro sito) e proposto anche in versione cartacea. In questa terza tappa di avvicinamento alla Giornata internazionale della donna, a raccontarsi è Chiara Landi, sindacalista che da dieci anni lavora per Unia, dove dall’autunno del 2021 è diventata responsabile del settore terziario per il Ticino, ciò che ha fatto di lei la prima donna a entrare in direzione regionale. Dopo la formazione universitaria nel corso della quale è stata molto attiva nel sindacato studentesco, Chiara ha girovagato tra Francia e Ginevra dedicandosi all’ambito internazionale per poi approdare in Ticino dove ha lavorato in alcune fabbriche. Entrata in contatto con Unia, è stata ingaggiata per occuparsi di contenzioso giuridico e consulenza sindacale di back office e dopo qualche anno è passata sul terreno come funzionaria di movimento del settore terziario. Da 7 anni è responsabile del gruppo donne Unia Ticino ed è anche tra le fondatrici di "Nate il 14 giugno", una rete di donne appartenenti a varie organizzazioni, associazioni, partiti e sindacati ticinesi sorta contestualmente alla preparazione dello sciopero nazionale delle donne del 2019 con la scopo di non disperdere le energie e il lavoro fatto nella realizzazione di quella giornata.
Chiara, nella tua professione a difesa degli interessi delle lavoratrici e dei lavoratori hai a che fare molto spesso con i loro capi che sono in buona percentuale uomini. Trovi che abbiamo la stessa considerazione nei tuoi confronti rispetto a quella che mostrano per i tuoi colleghi maschi?
Per inquadrare meglio la situazione c’è da fare una premessa, ovvero che quello di sindacalista è un lavoro per sua natura conflittuale, in particolare nei rapporti con i datori di lavoro rispetto ai quali abbiamo interessi contrapposti. Si parte quindi prevalentemente da situazioni di confronto talvolta anche duro e con una certa tensione. Ma dalla mia esperienza e da quella delle mie colleghe capita che i datori di lavoro si rivolgano a noi con degli atteggiamenti condizionati da stereotipi di genere latenti, ma spesso anche molto evidenti. Nel corso del mio lavoro mi sono dovuta confrontare con due diverse tipologie di approccio in questo senso. Da una parte c’è quello un po’ paternalistico condito da "mansplaining": nonostante siamo professioniste preparate per rappresentare gli interessi dei lavoratori nelle vertenze, la controparte talvolta si rivolge a noi con la presunzione di essere più qualificata a spiegarci come dobbiamo fare il nostro lavoro. D’altro canto, anche in contesti molto formali, ci è capitato di vivere delle situazioni di particolare disagio dovute al fatto che proprio non ci riconoscevano come interlocutrici. A me più di una volta è stato detto di stare zitta, o che si voleva discutere solo con il mio collega uomo seduto accanto. Quindi si tratta di un lavoro conflittuale per tutti i sindacalisti, ma per le sindacaliste sono d’intralcio anche quelle barriere e quei luoghi comuni ancora predominanti nella società.
Dal tuo osservatorio reputi che le rivendicazioni e le lotte sindacali delle donne trovino pari spazio e sostegno di quelle che toccano settori prettamente maschili? L’impressione è che siano più eclatanti e più sostenuti ad esempio gli scioperi degli edili che non quelli condotti in settori femminili.
Per quanto riguarda Unia, che si occupa di lavoratori del settore privato, bisogna tener conto del fatto che deriva dai sindacati dell’edilizia e dell’industria e per questo motivo ha delle radici molto maschili, anche se non esclusivamente. Infatti c’erano e ci sono ancora dei rami del settore industriale con manodopera prevalentemente o totalmente femminile. Negli ultimi decenni tuttavia la presenza di donne è significativamente aumentata dopo che ci siamo aperti al settore terziario. Questo ha comportato anche il loro ingresso all’interno del sindacato in modo sempre più importante e le loro lotte hanno cominciato ad accompagnare quelle più storiche. Bisogna però considerare le maggiori difficoltà nell’organizzazione delle donne dovute agli ostacoli che esistono ancora nel conciliare lavoro, famiglia e altre attività a causa della struttura sociale ed economica in cui siamo immersi. Sulle donne in molti casi ricade ancora la maggior parte del carico domestico, di cura dei familiari e accudimento dei figli, per cui spesso hanno anche meno tempo per poter partecipare attivamente alla vita sindacale. Nostro compito è anche di cercare delle vie e degli strumenti alternativi di organizzazione e di collettivizzazione per risolvere questi problemi "logistici". Ma intanto le mobilitazioni femminili stanno aumentando.
Non credi che le donne abbiano magari anche più ritrosia o paura ad avanzare le proprie rivendicazioni?
Questo è uno stereotipo dovuto al fatto che purtroppo in quanto donne pende su di noi come una spada di Damocle l’aspettativa che ci vuole docili e al nostro posto. Cresciamo in una società imbevuta di questi luoghi comuni normativi e ci convinciamo che debba andare così. E nessuna è al riparo da questi condizionamenti. Anche le femministe di oggi sono nate all’interno del sistema patriarcale e hanno dovuto compiere un percorso di emancipazione per poter decostruire una struttura mentale inculcata fin dall’infanzia e liberarsi da molte etichette. Simili pregiudizi, con cui siamo venute a confronto soprattutto in preparazione dello sciopero del 2019, sono quelli di chi diceva che le donne non erano pronte e abituate a scioperare, che non conoscono veramente la mobilitazione. È vero forse che abbiamo un livello di "sopportazione" generalmente più alto, sempre dovuto all’impostazione del mondo in cui viviamo, per cui aspettiamo un po’ di più prima di reagire. Ma quando le donne reagiscono penso che la forza prorompente sia la medesima, se non maggiore, di quella degli uomini. Perché la rabbia è tanta. Come detto, la nostra esperienza dimostra che soprattutto negli ultimi anni i settori femminili stanno vivendo delle fasi di mobilitazione importanti. Aggiungo "purtroppo", in quanto significa che ci sono tanti problemi da risolvere.
Puoi fare qualche esempio di queste mobilitazioni recenti?
Una grande mobilitazione risalente a pochi mesi fa è lo sciopero che ha coinvolto delle lavoratrici in una fabbrica del ramo dell’abbigliamento. Non si tratta di un’azienda esclusivamente femminile, però il reparto produttivo impiega interamente manodopera composta da donne. Sono venuti alla luce problemi molto gravi legati ai tempi di lavoro, al salario ma anche a questioni ambientali. Nonostante non si fossero mai organizzate sindacalmente prima, queste donne hanno dato prova di grande consapevolezza e coscienza collettiva. Abbiamo tenuto assemblee con 200 persone che in alcuni momenti sono state gestite dalle stesse lavoratrici, le quali sono state in grado di mettersi d’accordo in brevissimo tempo e di realizzare uno sciopero storico. Hanno messo in campo una tale forza che ci ha commosso. Più in generale succede molto spesso che nel commercio al dettaglio – che è un settore conosciuto per essere particolarmente precario, con bassi salari, in cui si vivono situazioni lavorative e personali molto difficili – emergano delle vertenze collettive. Questo significa che la problematica non riguarda una singola persona che si rivolge al sindacato, ma l’intero gruppo di lavoratrici di un ramo, di un’azienda, di un negozio.
Guardano indietro di qualche anno si incontra la significativa esperienza del ‘collettivo badanti’, formato da donne di origine straniera e quindi soggette a un doppio rischio di discriminazione. Lavoratrici che anche grazie a Unia hanno ottenuto diverse conquiste importanti per quanto riguarda le condizioni di lavoro e salariali. Com’è stato possibile?
Si è trattato di un’esperienza straordinaria e particolarmente esemplare. Il percorso è iniziato una decina di anni fa in quello che è un settore caratterizzato dalla predominanza di donne che arrivano dall’estero e lavorano in un contesto di fortissima atomizzazione. Sono da sole e isolate perché ognuna opera nella casa del proprio assistito. La scintilla che ha portato alla luce le loro condizioni è arrivata dalle lavoratrici stesse che si sono rivolte a noi a seguito dei suicidi di due loro colleghe dai quali erano rimaste profondamente toccate. Questo ci ha permesso di scoprire e scoperchiare un enorme vaso di Pandora e di poter accendere i riflettori su una situazione terribile non solo dal punto di vista lavorativo ma anche umano. Si parla di giornate lavorative di 24 ore, salari non riconosciuti, situazioni anche di messa a rischio della sicurezza e dell’incolumità delle persone. Alcuni fatti erano da denuncia penale, ci siamo ad esempio trovati di fronte a donne a cui veniva sottratto il documento d’identità come arma di ricatto. Dopo che ci hanno contattati abbiamo iniziato a muoverci e abbiamo subito capito che l’organizzazione sindacale era ancora più complicata del solito in quanto non c’era un luogo comune in cui incontrarsi, discutere, fare assemblee. Abbiamo allora pensato che dei punti di riferimento sarebbero potuti essere le loro comunità nazionali e religiose. Lì abbiamo iniziato a fare delle riunioni e a cominciare a trovare delle piste per poter migliorare le loro condizioni di lavoro ed esistenza. Grazie alla forza che hanno dimostrato, al loro coraggio e alla loro capacità di autorganizzazione si è riusciti a creare un collettivo che è diventato una vera e propria comunità. È stata un’esperienza molto valorizzante anche per noi, abbiamo imparato tanto, acquisendo ancora maggior coscienza di quanto confrontarsi e mettersi assieme dia vicendevolmente lo slancio. Ed è proprio questo che produce il cambiamento.
Spesso si sente dire che le donne fanno fatica ad andare d’accordo, ad agire insieme, che sono invidiose. Pensi sia vero e che quelle che ci hai raccontato siano delle eccezioni? In particolare nell’organizzazione dello sciopero del 14 giugno 2019 è stato difficile organizzarsi oppure le donne hanno subito concordato sull’importanza di creare questo momento di lotta? Personalmente tu come ti trovi a lavorare con altre donne?
Non ho mai lavorato bene così come quando l’ho fatto con altre donne, a partire dalla mia attività quotidiana di sindacalista. E per quanto riguarda la specifica esperienza di organizzare lo sciopero delle donne del 2019 è stata qualcosa che per me non ha eguali, ho trovato un tessuto di rapporti di sorellanza che mi ha aperto un mondo. La storia secondo cui la rivalità e l’invidia "sono donna" dipende dalle narrazioni che vengono perpetrate dai media, dai film che vediamo, dalle favole che ci raccontano fin dall’infanzia dove si trovano sempre donne che si accapigliano, che si fanno la guerra per poter ottenere l’amore del principe azzurro. Cresciamo con queste idee e spesso anche noi donne ci facciamo portavoce di questi stereotipi perché li abbiamo talmente radicati in noi che facciamo fatica a riconoscerli. Ma quando iniziamo a rendercene conto e a scardinarli, cambia tutto. È come se avessimo degli occhiali che ci mostrano un mondo filtrato e quando capiamo che li possiamo togliere per vedere finalmente quanto la realtà sia differente, ci rendiamo conto di quante stupidaggini ci abbiano raccontato. Spesso è un processo di emancipazione che passa da uno scambio tra esperienze individuale e collettiva. Nella preparazione dello sciopero delle donne ho tra l’altro avuto il privilegio di poter collaborare con tante donne di diverse idee e opinioni, di differenti estrazioni, in cui però c’è sempre stata una volontà di ascoltarsi, di capirsi e di trovare delle soluzioni condivise. Si è trattato di un’esperienza orizzontale che mi ha veramente molto segnata. Sviscerando e condividendo le storie si riesce anche a capire cosa abbiamo dentro di noi, cosa ci è stato inculcato, cosa c’è di sbagliato nella società che ci ha fatte andare fuori strada nel corso della nostra vita. È il meccanismo che si crea anche quando c’è la possibilità di incontrarsi tra donne, in particolare in ambienti non misti dove potersi sentire veramente libere dallo sguardo giudicante. Ed è bellissimo.