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‘Anche molti uomini soffrono di problemi legati al genere’

Yari Carbonetti, educatore e autore di due tesi in psicologia sociale: ‘Appartenere a un gruppo privilegiato non significa per forza essere vincitori’

(Keystone)

Perché il superamento degli stereotipi di genere deve riguardare anche e soprattutto gli uomini? Con questa domanda, desunta da un articolo di Yari Carbonetti uscito sulla rivista online ‘Il Tascabile’, apriamo il quarto incontro del podcast de ‘laRegione’ – qui in versione scritta – ‘L’unica donna nella stanza’ ideato come percorso di avvicinamento alla Giornata internazionale della donna che cade oggi. Dopo le preziose testimonianze e riflessioni di Alessandra Zumthor, Silvia Misiti e Chiara Landi da cui emerge quanto la parità di genere sia un diritto per cui bisogna ancora molto lottare in numerosi ambiti, abbiamo quelle di Yari – educatore, classe 1992, un master in psicologia clinica e due tesi in psicologia sociale – che racconta la propria esperienza di uomo che si è molto avvicinato alla questione femminista, sia nella teoria che nella pratica.

Yari, nel tuo articolo ‘Decostruire il maschile. Perché il superamento degli stereotipi di genere deve riguardare anche e soprattutto gli uomini’ scrivi che nelle società patriarcali anche molti uomini soffrono sistematicamente di problemi legati al genere e che appartenere a un gruppo privilegiato non significa per forza essere vincitori. Ci spieghi queste affermazioni?

Facciamo un passo indietro. Ogni sistema sociale e di potere ha un suo immaginario, una sua ideologia. In parte li crea, in parte li necessita perché ha bisogno di un pensiero che lo legittimi, e il sistema patriarcale non è diverso. Quelli che definiamo stereotipi di genere sono un vero immaginario patriarcale. Da una parte la donna deve essere calorosa e affettuosa, stare a casa, badare al nucleo familiare. Dall’altra l’uomo deve dimostrarsi più freddo, controllare le proprie emozioni, essere improntato a una certa forma di dominanza sociale, di successo personale e materiale. Deve sprezzare il pericolo, e quasi amare il rischio. Questo immaginario che indirizza uomini e donne verso comportamenti e ruoli diversi nella società patriarcale porta alla grandissima asimmetria di potere tra uomini e donne. Potere sociale, economico, religioso, militare, politico a favore della classe sociale degli uomini. Al contempo però tanti uomini come individui incontrano difficoltà in alcuni aspetti puntuali delle proprie vite. Penso al tema delle emozioni: per l’uomo è molto più difficile mostrarsi vulnerabile, parlare delle proprie paure, dei propri dolori e chiedere aiuto, motivo per cui in molti sottoutilizzano i servizi di assistenza fisica e psicologica con tutti i rischi che ne conseguono. Penso alle amicizie, dove in quelle maschili spesso si vede un’intimità e un supporto emotivo minori rispetto alle quelle femminili. O ancora al fatto che non di rado gli aspetti di dominanza sfociano nell’aggressività e così gli uomini sono molto più a rischio di utilizzare e subire violenza fisica. Forse per gli uomini all’apice della scala gerarchica questi aspetti rappresentano solo qualche fastidio, ma per la maggior parte degli altri uomini può essere un dramma quotidiano, silenzioso ma reale, di cui spesso c’è poca consapevolezza.

In seguito fai un’avvertenza, ovvero che non è possibile risolvere questi problemi che riguardano gli uomini senza lavorare sulla rappresentazione, sui ruoli e sulla condizione delle donne in quanto anche il miglioramento delle vite della maggioranza del mondo maschile potrà avvenire solo favorendo il processo di emancipazione femminista. Perché?

Per due motivi. Il primo è che l’educazione all’essere maschio, all’essere uomo, è molto legata all’educazione all’essere donna, all’essere femmina. Solo che una nega l’altra. L’educazione a essere maschio è l’opposizione, l’allontanarsi dall’essere femmina. Quindi non possiamo dire a un bambino di sentirsi libero di piangere se al contempo gli diciamo che il pianto è per le bambine che sono deboli e che lui deve salvare. Sarebbe un controsenso. Il secondo motivo è che il nostro immaginario, in questo caso patriarcale, non esiste in una bolla separata dalle relazioni di potere materiale e dal sistema economico. Viviamo in una società in cui gli uomini hanno più potere economico, c’è un gender gap ancora netto, a capo delle aziende e della politica ci sono gli uomini, mentre il lavoro di cura non retribuito è ancora svolto prevalentemente dalle donne. Come facciamo a cambiare l’immaginario se la realtà materiale rimane ingiusta e asimmetrica? È vero che l’essere umano è molto bravo a mentire a sé stesso, ma non potrebbe vivere una tale differenza tra la realtà e il proprio immaginario sociale.

Com’è possibile andare verso l’emancipazione femminista e liberare l’intera società dall’immaginario patriarcale che la soffoca?

Penso che i grandi movimenti femministi internazionali sanno bene quello che stanno facendo, e i risultati continueranno ad arrivare. Ma come detto è fondamentale tenere in considerazione che il sistema sociale e quello economico sono profondamente intrecciati. Se guardiamo al ruolo della donna a fine 800 / inizio 900 era di stare in casa ad accudire i figli, insomma di riproduzione della classe lavoratrice. Poi è arrivato il boom economico sotto il sistema produttivo capitalista e le donne sono entrate nel mercato del lavoro. Però alla prima crisi – e lo abbiamo visto anche in Svizzera recentemente con la pandemia – a soffrire e a essere rimandate a casa per prime sono le donne. D’altro canto per diverse donne autoctone, bianche, ricche, eterosessuali una certa forma di genere potrebbe non essere lontanissima se i movimenti femministi continuano a lottare, ma per permettere a molte di queste donne di uscite dalla porta di casa per entrare nel mercato del lavoro spesso altre donne migranti e povere sono entrate dalle loro finestre per svolgere i lavori di cura, come badanti, come colf, da aggiungere a quelli che continuano a fare nelle loro case. Per loro la parità è ancora un lontano miraggio. Penso che per superare veramente l’immaginario patriarcale bisogna andare a toccare il sistema di produzione capitalista, e se non superarlo, quantomeno limitarne le enormi disuguaglianze economiche.

Tu come ti sei avvicinato al femminismo e ad acquisire la consapevolezza dell’importanza di decostruire gli immaginari maschili dominanti? In questo percorso che sensazioni hai provato?

Una mia amica una volta mi ha detto che dietro a ogni uomo che anche solo vagamente possa provare a definirsi femminista c’è una donna femminista che ha speso grandi energie, tempo, risorse. Penso che questo valga anche per me. Quando arrivi ad acquisire un minimo di consapevolezza che ti permette di metterti veramente in ascolto e che permette a donne oppure a soggettività non eterosessuali e non cisgender di raccontarti la loro esperienza, il dolore che sta dietro ad alcune dinamiche, i traumi e le ingiustizie subite, penso che sia impossibile non rendersi conto che qualcosa di molto radicale non funziona nei nostri comportamenti, nella nostra società, nei ruoli che pensiamo sia giusto assumere. Inizialmente questo percorso mi ha fatto male, mi ha spaventato, mi ha tolto un po’ il terreno da sotto i piedi. Ho dovuto trovare qualcosa con cui sostituire i comportamenti reputati ingiusti, dolorosi o esplicitamente misogini. Poi però è stato tutto in discesa perché liberarsi da alcune imposizioni, come quelle dell’invulnerabilità psicologica o dell’invincibilità fisica, apre a delle possibilità all’interno delle relazioni sentimentali e di amicizia che prima erano inimmaginabili. Ciò che resta come lavoro e come spesa emotiva è il tentativo di mantenere alta la consapevolezza, chiedersi perché si reagisce in certi modi. Ma poi si sviluppa un’abitudine alla consapevolezza molto utile anche per relazionarsi a persone con disabilità, a persone migranti, a uomini o donne non eterosessuali.

Che cambiamenti ha comportato nella tua vita questo avvicinamento al femminismo?

Nelle mie amicizie vedo delle differenze importanti tra quelle che ho ora e quelle che avevo magari dieci anni fa, principalmente sul fronte del sostegno emotivo, della vicinanza empatica. Non ho più i tabù di una volta, sento che posso aprirmi, mostrare alcuni aspetti della mia vita di cui magari mi vergogno, e soprattutto trovo delle orecchie che mi ascoltano e non mi giudicano e questo è qualcosa di cui non potrei più fare a meno. Poi c’è la questione del contatto fisico. Nei rapporti tra uomini che si rifanno a una mascolinità tradizionale patriarcale fa sempre un po’ ridere che nonostante ci siano una spinta e un bisogno di dimostrare l’affetto tramite il contatto fisico, questo si traduca spesso con delle pacche, un po’ come quelle che si danno sulla pancia dei cani. Non c’è quel tempo in cui si rimane in contatto, in cui l’abbraccio dura un po’ di più, in cui si sente il calore di un’altra vita umana e che trasmette tantissimo. Anche questo per me è cambiato. Per quanto riguarda invece le relazioni sentimentali, non parto più con dei pregiudizi di ruolo, aspettandomi determinati comportamenti stereotipati. Se guardo l’altra persona attraverso una lente patriarcale la vedo distorta, vedo più i pregiudizi che conosco di quel genere piuttosto che la persona che ho di fronte. Ma ogni essere umano è unico a prescindere dalla propria identità di genere. Rendersene conto concede molta più flessibilità nelle relazioni che diminuisce i conflitti e aumenta la soddisfazione e la vicinanza.

Trovi fondamentale che gli uomini parlino di questi temi con altri uomini?

Sì. In primo luogo per una dinamica di base di psicologia dei gruppi: io ascolto e mi lascio influenzare da chi sembra più simile a me, da chi sembra far parte del mio gruppo, specialmente su elementi tanto importanti e intimi come le relazioni e i sentimenti. Secondariamente perché servono nuovi modelli di maschilità e li si possono trovare soltanto grazie ad altri uomini. Se già è difficile scoprire quali nostri comportamenti sono disfunzionali, poco salutari se non addirittura misogini, è ancora più difficile sostituirli ad altri comportamenti migliori per tutte e tutti. Quindi dobbiamo parlarne tra di noi, dobbiamo trovare degli spazi in cui raccontarci quello che non funziona e provare a ipotizzare insieme in che altri modi possiamo vivere sia la vita individuale, sia le relazioni amicali e sentimentali.

Spesso di fronte a delle situazioni di prevaricazioni di genere si sente l’argomentazione difensiva ‘ma non tutti gli uomini sono così, ma non tutti gli uomini fanno così’. Pensi sia legittima o c’è forse un distinguo da fare tra colpa e responsabilità?

Questo è un argomento fantoccio perché distorce la questione a cui pretende di rispondere. Nessuna teoria o donna femminista dice che tutti gli uomini sono uguali, al massimo si dice che gli uomini che fanno capo alla maschilità tradizionale sono attraversati da un fil rouge. Anzi, le teorie femministe dicono che esistono tanti modi diversi di essere maschi. Una volta ho sentito una frase che mi è rimasta impressa: ‘nessun uomo conosce un uomo che ha compiuto molestie sessuali, ma molte donne conoscono altrettante donne che hanno subito varie forme di molestie sessuali’. Questo è vero e credo che sia esemplificativo del fatto che come uomini dovremmo parlare molto di più tra noi e non semplicemente rigettare ogni accusa. Non siamo tutti uguali ma abbiamo una responsabilità, un dovere. Se, come abbiamo detto prima, tra chi si somiglia è più facile ascoltarsi, abbiamo il dovere di parlare tra di noi dei pericoli e dei rischi che alcuni comportamenti possono avere sulle donne. I sistemi sociali sopravvivono spesso per implicito, per assenso-consenso. Per questo non basta pensare nella propria testa che un comportamento è prevaricatore, è violento o è pericoloso. So che è difficile, ma dobbiamo assolutamente trovare le energie per far notare o denunciare quando qualcosa non funziona, altrimenti sarà molto più difficile cambiare le cose.

Spesso si sente anche la frase ‘non si può più dire niente’ quando, tra le altre cose, si teme di essere accusati di sessismo. Cosa nasconde questa espressione?

Quando una classe sociale perde un determinato privilegio, gli individui di questa classe sociale la vivono come un’ingiustizia, un torto, un furto. E di conseguenza cercano di difendere il privilegio. Per questo motivo dobbiamo riallacciarci ad altri modelli di mascolinità e di società. Altrimenti rimaniamo in questa situazione piuttosto triste e continuiamo a perdere tutte e tutti.

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