Nella prima ondata le restrizioni hanno salvato 35mila vite: è la stima di Beatrice Retali e Nicolò Gatti dell’Usi. Che calcolano anche il valore monetario di queste vite
“Ne vale la pena?”. È la domanda che sempre più persone si pongono di fronte alle misure restrittive decise dalle autorità per contenere la pandemia. Limitare o chiudere teatri e ristoranti, bar e musei, scuole e negozi, con tutte le conseguenze economiche, sociali e psicologiche – per salvare delle vite: fino a che punto vale la pena farlo? È una domanda al contempo tragica e complessa. Tragica, perché istintivamente ci fa orrore l’idea di stabilire un valore economico alla vita, sia essa la nostra o quella di qualcun altro; complessa perché si tratta di prendere decisioni in una situazione di incertezza, valutare “cosa sarebbe accaduto se”, cercare di isolare aspetti che sono intimamente legati tra di loro. Una crisi economica ha conseguenze sulla salute della popolazione, e d’altra parte una pandemia con il suo carico di morti e malati cambia, anche senza restrizioni delle autorità, il comportamento delle persone.
Nella ricerca sui benefici economici del lockdown in Svizzera svolta da due dottorandi dell’Istituto di economia politica dell’Università della Svizzera italiana – Nicolò Gatti e Beatrice Retali, sotto la supervisione del professor Fabrizio Mazzonna – non c’è la risposta alla domanda se ne valeva la pena, se delle misure diverse avrebbero ottenuto gli stessi effetti. La loro analisi fornisce comunque informazioni preziose: quante vite è ragionevole supporre che siano state salvate grazie alle misure adottate in Svizzera la scorsa primavera (35mila); qual è il valore monetario di queste vite (100 miliardi di franchi). Dati dai quali partire per riflettere sull’impatto, tra “costi” e “benefici”, di quelle misure, per chiedersi certo se ne valeva la pena, ma anche quali sono, e come affrontarle, le disuguaglianze di quei costi e di quei benefici.
Nel vostro lavoro stimate il numero di morti che le misure introdotte a marzo avrebbero evitato. Come si è arrivati a questo calcolo?
Siamo partiti da un modello già esistente in epidemiologia. Secondo questo modello, le persone possono trovarsi in cinque diverse condizioni: essere suscettibili, cioè possono ancora ammalarsi; ammalati, e quindi contagiosi; in via di guarigione, quindi ancora ammalati ma non più contagiosi; guariti oppure morti. È il modello SIRDC, Susceptible-Infectious-Resolving-Deceased-reCovered.
Abbiamo applicato questo modello base alla situazione epidemiologica in Svizzera al 5 marzo – quando l’incidenza del virus sulla popolazione è diventata particolarmente significativa - con la distribuzione della popolazione tra le cinque classi, il tasso di recupero e altri fattori. Ma il modello di base assume che le persone non modifichino le proprie abitudini con il diffondersi della malattia, cosa improbabile con il diffondersi di notizie su una nuova malattia. Abbiamo quindi introdotto delle “risposte endogene” che variano a seconda dell’età: una riduzione spontanea, indipendente cioè dalle imposizioni delle autorità, dei contatti e delle relazioni sociali. Quanto li riducono dipende dall’età, dal momento che come sappiamo la mortalità del Covid è alta soprattutto negli anziani. Queste risposte endogene possono essere di tipo egoistico, quindi essere basata sul proprio rischio di mortalità, ma anche di tipo altruistico che porta anche i più giovani a ridurre parzialmente i contatti.
È basandosi su questo ipotetico scenario ‘senza lockdown’ che si arriva alle 35mila morti evitate?
Sì. Abbiamo stimato non solo le morti “dirette”, cioè le persone che muoiono dopo essersi contagiate, ma anche le morti dovute all’esaurimento della capacità ospedaliera. Quando le strutture sanitarie raggiungono il limite, la qualità delle cure scende e il tasso di mortalità non può che aumentare.
Arriviamo quindi a circa 30mila morti dirette e 5mila aggiuntivi per via degli ospedali non più in grado di fornire cure sufficienti.
All’inizio della pandemia si facevano pochi test e molti casi non sono stati rilevati.
Abbiamo seguito due strade alternative per derivare le nostre stime. Da una parte ci siamo basati sui dati di casi positivi registrati dall’Ufficio federale della sanità pubblica, corretti con i risultati di uno studio sierologico condotto a Ginevra. Parallelamente, abbiamo considerato i dati dell’Ufficio federale di statistica sul numero di decessi nei vari cantoni, per valutare la mortalità in eccesso rispetto agli anni precedenti. Le stime ottenute con entrambi i sistemi sono vicine.
Abbiamo deciso di utilizzare queste due strade per superare le limitazioni di ogni sistema: il dato sui casi positivi può portare a sovrastimare la mortalità, perché molte persone soprattutto nelle fasi iniziali non venivano testate, ma d’altra parte abbiamo anche avuto delle persone morte a casa senza essere state testate e quindi assenti dai dati ufficiali, il che porta a una sottostima della mortalità. Discorso simile per l’eccesso di mortalità basato sui dati amministrativi: abbiamo avuto un rallentamento delle attività economiche e sociali, il che ha certamente comportato una riduzione di incidenti.
Questa parte più epidemiologica è stata controllata da esperti del campo?
Questo studio è stato rivisto da diversi membri del nostro dipartimento con competenze in economica sanitaria ed è stato fatto leggere ad altre persone con maggiore esperienza di noi in ambito sanitario ed epidemiologico. All’inizio della pandemia, inoltre, l’Imperial College di Londra ha condotto diverse simulazioni in vari Paesi e, al netto delle nostre correzioni sul comportamento delle persone, la nostra stima per la Svizzera è piuttosto simile alla loro pubblicata su Nature.
Stimate una riduzione spontanea dei contatti; l’utilizzo di mascherine?
Lo scenario controfattuale – quante persone sarebbero morte senza interventi restrittivi da parte delle autorità – non prevede l’utilizzo di mascherine e in generale dispositivi di protezione. Se da un lato si tratta di un’assunzione abbastanza credibile - all’inizio della pandemia la disponibilità di mascherine era scarsa - d’altra parte potrebbe essere un limite del nostro studio.
Passiamo alla seconda parte del vostro lavoro: dare un valore economico a queste 35mila morti evitate. Lo fate basandovi su un indice, il valore statistico della vita o Vsl, che si scontra con l’intuizione che la vita umana non abbia prezzo.
Certamente la vita va al di là delle valutazioni economiche, ma questa metodologia, che è uno standard in economia, ha un significato diverso. Il Vsl è ad esempio utilizzato dalle compagnie di assicurazione per valutare i risarcimenti in caso di incidenti. Il valore che abbiamo utilizzato, 6,7 milioni di franchi, è quello indicato dall’Ufficio federale di statistica.
Ma come si arriva a questo importo?
È costruito aggregando la disponibilità a pagare delle persone per ridurre il proprio rischio di morire. È una stima che riguarda soprattutto il mercato del lavoro: se pensiamo a un determinato rischio di mortalità legato a una professione, la domanda è quanto un individuo sarebbe disposto a pagare per ridurre questo rischio?
Il valore di 6,7 milioni significa quindi che se una determinata attività comporta una probabilità di uno su diecimila di morire, siamo disposti a spendere 670 franchi (6,7 milioni diviso diecimila) per evitare questo rischio?
Grosso modo sì. Ma bisogna tenere conto di nuovo delle diverse fasce della popolazione: il Vsl di un individuo riflette soprattutto la sua aspettativa di vita, ma anche conoscenze e abilità accumulate, per cui tende ad aumentare fino a grosso modo ai trent’anni e poi cala progressivamente.
Per questo il valore indicato nel vostro studio, 100 miliardi di franchi, è meno della metà di quello che si ottiene moltiplicando i 6,7 milioni di franchi alle 35mila morti evitate?
Sì. E infatti indichiamo che quell’importo, corrispondente a circa il 14% del Prodotto interno lordo, è un limite inferiore. Inoltre nella nostra ricerca osserviamo che potrebbe non essere del tutto corretto deprezzare così tanto il Vsl delle persone anziane. Assumendo che a partire da una certa età il valore rimanga costante, il beneficio economico del lockdown è anche superiore.
Parliamo di beneficio economico.
Non vogliamo dire che la vita sia equivalente ai soldi. Vogliamo dire che, con tutti i limiti che ha questa misura, è possibile attribuire alle vite salvate un valore “monetario” che permetta di fare stime informative da un punto di vista economico e utilizzabili per delle scelte politiche.
Insomma, avere una stima monetaria dei benefici del lockdown, da confrontare con i costi.
Noi ci siamo fermati all’analisi dei benefici, anche perché valutare in modo empirico, cioè basandosi sui dati, questi costi è molto difficile. Abbiamo certamente i costi economici diretti – attività chiuse, l’impossibilità per molti di lavorare –, ma abbiamo anche i costi psicologici legati alla sospensione delle relazioni sociali, con molti rimasti in casa senza incontrare amici o parenti, i costi sanitari legati alle prestazioni che per vari motivi non sono state garantite.
Esistono degli strumenti paragonabili al Vsl per valutare economicamente ad esempio un disagio psicologico?
Non mi risultano. Ma è importante dire che queste situazioni negative, che lo stress e il malessere mentale che noi adesso associamo al lockdown vi sarebbero anche in assenza di misure restrittive. Il nostro modello prevede, come detto, una spontanea riduzione dei contatti il che significa non solo ridurre le relazioni sociali, ma anche evitare ad esempio ristoranti, teatri. Anche avendo gli indici giusti è quindi difficili stimare i costi psicologici del lockdown rispetto all’assenza del lockdown.
Anzi: il lockdown potrebbe addirittura arrivare a contenere questi costi perché riduce l’incertezza contenendo la riduzione del virus. Un caso spesso citato è la Svezia che ha avuto restrizioni più contenute rispetto ad altri Paesi, ma la situazione economica non è molto diversa da quella di Paesi che hanno adottato misure più stringenti.
Come detto è uno studio empirico basato su due scenari: le misure effettivamente adottate e un contrattuale senza restrizioni. Non toccate il tema di eventuali altre misure altrettanto efficaci ma meno onerose?
Sono state realizzate simulazioni che per ogni tipo di intervento, come la chiusura delle scuole o il blocco delle attività economiche, calcolano il contributo nel contenimento della pandemia. Tuttavia, dal momento che durante lo scorso marzo varie misure sono state introdotte contestualmente in Svizzera, sarebbe difficile valutare empiricamente quanto ciascun tipo di intervento sia stato efficace. L’obiettivo del nostro studio è quello di sottolineare un aspetto che a volte rischia di essere trascurato: i benefici che il lockdown ha avuto in termini di vite salvate. Esistono ovviamente altri benefici – pensiamo ad esempio ai giorni di malattia risparmiati – come anche dei costi.
Benefici che riguardano una fascia particolare della popolazione.
Sì. È chiaro che il Covid colpisce soprattutto le persone più anziane: le chiusure hanno quindi ridotto in maniera significativa il tasso di mortalità degli anziani ma solo in maniera marginale quello dei più giovani. I benefici, almeno per quanto riguarda le vite salvate, riguardano quindi le persone più anziani; i costi, invece, verosimilmente incidono soprattutto sui più giovani che hanno spesso contratti a tempo determinato o che devono rimandare la loro entrata nel mercato del lavoro.