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Il business as usual deve finire

Dopo i consueti luglio e agosto passati a Taiwan per lavoro/studio/vacanza, io, mia moglie e mio figlio fra poco torneremo a casa in Ticino. È sempre bello tornare a casa e riaggiustarsi alla quotidianità di Giubiasco dopo che ci siamo costruiti una quotidianità a Linkou, un tranquillo quartiere di Nuova Taipei che, con i suoi 130’000 abitanti, ha da solo più del doppio degli abitanti di Lugano. Salutati gli amici taiwanesi e affidate a loro le nostre sempre più abbondanti cose prese per il piccolo appartamento in affitto, siamo pronti a ricominciare la nostra vita a latitudini più temperate.

È stata la nostra quarta estate a Taiwan e per me, che da più di un decennio la frequento brevemente anche durante le altre stagioni, è una seconda casa.
Dopo aver letto il contributo di Erkin Zunun sull’edizione del 16 agosto, ho avuto la riconferma che quando si tratta di Cina lo standard europeo dei diritti umani non si applica. Sono decenni che sappiamo che la Cina si comporta in modo mostruoso con i suoi stessi cittadini, siano essi tibetani, uiguri, dissidenti etc. Eppure, business as usual. Non vorrei che nel lungo periodo la Cina si sentisse così sicura di sé e così sicura delle non-conseguenze che possa decidere di invadere la mia seconda casa, cioè l’isola-nazione democratica e libera che, per un insensato nazionalismo imperialista, pensa sia sua. Io penso che di fronte al risveglio degli imperialismi autoritari (vedi Russia con Ucraina), il business as usual non sia più tollerabile: le democrazie liberali devono capire che è una questione di sopravvivenza.

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