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Quali diritti per i bambini di via Barzaghi?

Lo stabile di via Barzaghi che verrà demolito
(Ti-Press/Archivio)

“Dite: è faticoso frequentare i bambini. Avete ragione. Poi aggiungete: perché bisogna mettersi al loro livello, abbassarsi, inclinarsi, curvarsi, farsi piccoli. Ora avete torto. Non è questo che più stanca.

È piuttosto il fatto di essere obbligati a innalzarsi fino all’altezza dei loro sentimenti. Tirarsi, allungarsi, alzarsi sulla punta dei piedi. Per non ferirli”.

Per Janusz Korczak (1878-1942), medico e pedagogista polacco, i bambini non erano adulti in miniatura. Erano creature più vulnerabili i cui sogni ed emozioni meritavano il massimo rispetto. Il suo pensiero, fondato sulla dignità e la protezione dei più piccoli, è stato fondamentale per la definizione dei loro diritti, sanciti dalla Convenzione sui Diritti del fanciullo adottata dall’Onu il 20 novembre 1989. Gli Stati firmatari, tra cui la Svizzera (1997), s’impegnano a vigilare perché sia tutelato sempre l’interesse superiore del bambino, affinché sia ascoltato e considerato nelle decisioni che lo riguardano. A proteggerlo da ogni forma di abuso e violenza, sia fisica che psichica e ad assicurargli l’accesso a un’istruzione che promuova uno sviluppo sereno e armonico. A garantire a tutti i bambini questi diritti. Ricordare questi diritti, nel giorno del loro trentacinquesimo anniversario, proprio nel Paese in cui sono stati sanciti, potrebbe sembrare quasi superfluo.

Trentacinque anni fa apriva anche il Centro di accoglienza Croce Rossa di via Barzaghi a Paradiso. Qualcuno ricorda ancora quando lo storico edificio, prima casa chiusa, diventò rifugio per chi scappava dalle guerre jugoslave (e non solo). Da allora molti bambini hanno vissuto in quegli spazi portando vita nelle nostre aule, quelle in cui ancora insegniamo. Oggi molti dei nostri allievi sono figli di chi ha dovuto lasciare la propria terra perché non più sicura.

Martedì 22 ottobre è stata annunciata la chiusura definitiva del Centro. A mezzogiorno, i bambini che ci vivevano sono stati informati che il venerdì successivo sarebbero stati trasferiti con le loro famiglie in nuove strutture cantonali. Che l’edificio non era più agibile (la causa, si è saputo in seguito, era una crepa strutturale), che lo avrebbero, di lì a poco, demolito. Restavano due giorni per prepararsi. Ciò che avevano costruito, i legami e la loro quotidianità, veniva spazzato via. Mentre i bambini ricevevano questa comunicazione, l’edificio era in fase di smantellamento. È difficile descrivere il dolore e il senso di smarrimento che li hanno accompagnati in classe quel pomeriggio. La sera stessa è iniziato il trasferimento dei 90 minori non accompagnati che vivevano nell’edificio, anche loro informati quel giorno. Sarebbero rimasti provvisoriamente a Paradiso, presso l’Hotel Dishma.

Tutti conosciamo, specialmente dopo il servizio di Falò andato in onda il 10 ottobre, le condizioni critiche in cui, da molto tempo, versava lo stabile. Le immagini dei balconi sorretti da pali di legno lungo le pareti sgretolate sono ormai note. Gli spazi in cui alloggiavano i nostri allievi erano miseri: non c’era una sola stanza per giocare, non un angolo in cui tenere dei giochi da poter condividere. È probabile, quindi, che il primo pensiero di chi quel pomeriggio ha letto la notizia sia stato “era ora, finalmente lo hanno chiuso”. Chi però ha vissuto la situazione più da vicino, non ha potuto non interrogarsi: come mai non si è cercato un luogo idoneo, prima di arrivare a questo punto? Davvero non sarebbe stato possibile agire per tempo, consentendo una partenza più serena?

Gli 11 bambini che abitavano in via Barzaghi – nei principali media non si è parlato di loro – con le loro madri, così come i 90 ragazzi senza genitori che abitavano ai piani superiori, non erano lì da pochi giorni. Da un anno o due, se non di più in alcuni casi, quel luogo era, per loro, casa. Era fatiscente, ma sopra i letti avevano appeso i loro disegni. A Paradiso avevano intessuto legami, imparato l’italiano, tracciato una propria geografia, coltivato un orto. Non era previsto un trasferimento imminente. Non erano preparati. Una separazione, un trasloco, un cambio di scuola, si sa, sono passaggi delicati. Offrire un accompagnamento e il tempo necessario per affrontarli è fondamentale per la salute mentale dei bambini, ma anche un segno di rispetto. Nei due giorni in cui i bambini hanno potuto continuare a frequentare la scuola, i compagni e i docenti hanno fatto del loro meglio per attutire il colpo, cercando di far sentire loro quanto sono importanti, e che il tempo trascorso insieme lascia un segno indelebile.

Arriveranno le macerie e poi l’area sarà riqualificata, ma noi non dimenticheremo chi ha abitato quel luogo. Abbiamo avuto notizie dei nostri allievi: respirano, mangiano, parlano e ridono. Sappiamo che hanno iniziato una nuova scuola. Non sappiamo, però, quale sia il segno lasciato da questa partenza improvvisa in queste vite. Forse, siccome si sono svolte all’insegna di precarietà e sofferenza, il solco sarà meno profondo? Non è, invece, proprio per questo, che quanto accaduto risulta più grave?