Quando chiedevo ai miei allievi cosa volessero fare da grandi, molti ragazzi (maschi) affermavano di voler diventare dei manager, perché si trattava di gestire il potere. L’idea di base è che le aziende sono gestite in maniera verticale e più stai in alto, più potere avrai. Si tratta di un’idea fondamentale sbagliata, come dimostra lo studio dell’Institut für Mitbestimmung und Unternehmensführung e dell’Università di Jena, che in Germania hanno esaminato il rispetto di una legge che stabilisce che nelle imprese con oltre 2’000 addetti è obbligatoria la cogestione tra lavoratori e direzione. L’idea dell’indagine – che ha considerato i bilanci delle aziende, le banche dati e i registri commerciali – è partita dalla constatazione che molte aziende non adottavano la cogestione. Il “leader” di questa situazione è naturalmente Tesla, che occupa 12’000 addetti, ma poi si è scoperto che anche altre grandi aziende non adottano nessuna forma di collaborazione e tra queste anche Zalando, Biontech e Aldi. Tra le 1’100 grandi aziende esaminate oltre 400 non rispettano la legge.
A questo punto ci si potrebbe chiedere dove sta il problema. Perché gli azionisti o i dirigenti dovrebbero condividere le loro scelte strategiche con i rappresentanti dei lavoratori? La Tesla di Elon Musk funziona bene senza la presenza di sindacati o di qualsiasi forma di cogestione con gli operai. E lo stesso si può dire anche per Zalando o Aldi. Strutture di cogestione non sono forse un freno alla libertà dell’impresa? Secondo uno studio dell’Università di Duisburg-Essen, le aziende in cogestione realizzano profitti in media superiori dell’11% rispetto a quelle che non l’applicano. Non solo, le aziende in cogestione fanno di più per ridurre le emissioni dannose per l’ambiente e offrono condizioni di lavoro migliori.
Dove sta l’inghippo? I manager non sanno forse scegliere le migliori strategie per l’impresa? La risposta è molto più complessa. Il tema è sempre stato al centro degli studi di economia e di sociologia industriale e già negli anni 80 si appurò che nelle imprese dove il ruolo dei lavoratori è attivo, e laddove condividono perlomeno alcune scelte aziendali, i risultati sono migliori. La spiegazione è relativamente semplice: se il lavoratore si sente parte dell’azienda, il suo impegno sarà superiore a quello dei colleghi che invece lavorano in imprese dove i manager, magari arroganti, pensano di avere sempre la soluzione giusta.
L’esempio più conosciuto è forse quello della Toyota, che quando introdusse la produzione flessibile (lean production) incoraggiò i lavoratori a proporre delle soluzioni per migliorare il prodotto e il processo di produzione (le idee potevano essere scritte su un foglietto da appendere a una lavagna all’uscita dal posto di lavoro). In poco tempo l’azienda giapponese divenne l’industria automobilistica con il minor numero di errori di produzione (il 40% in meno rispetto alla media dei concorrenti). Ma di esempi di questo tipo ce ne sono molti, sia di grandi che di piccole aziende. Anche il successo dei distretti industriali italiani è dovuto – in parte – allo spirito di collaborazione con gli operai e tra le aziende stesse.
Naturalmente la collaborazione non deve necessariamente passare dalla cogestione. In Svizzera probabilmente il miglior contratto collettivo di lavoro è quello dell’edilizia. Apparentemente ogni anno ci sono grandi attriti tra sindacati e datori di lavori, ma alla fine si raggiunge sempre – dopo lunghe discussioni e un qualche sciopero – un compromesso che soddisfa entrambe le parti, le quali sanno benissimo che gli uni non possono fare a meno degli altri.
Manager come Sergio Ermotti, Nicolas Hayek o Elon Musk sono una rarità. Hanno evidentemente capacità non comuni, ma anche loro sanno (perlomeno i primi due) che per ottenere dei risultati è indispensabile fare affidamento sui collaboratori.
Anche quando abbiamo a che fare con piccole ditte artigiane vale questa relazione: spesso ci troviamo operai non particolarmente competenti (sempre più spesso) e operai che invece svolgono il lavoro con passione. Se andiamo a verificare, vediamo che spesso i secondi lavorano in imprese dove il lavoratore non è solo una macchina per fare profitti, ma un essere umano che viene valorizzato. Questa basilare relazione è andata via via scemando negli ultimi decenni sull’onda dell’arroganza di certi manager, ma rimane fondamentale non solo per la crescita dell’impresa ma dell’intera economia.