Con il termine di dispersione scolastica ci si riferisce a quel multiforme fenomeno dell’assenteismo da scuola che nei casi più gravi può precludere il raggiungimento del livello di istruzione previsto dalla legge. Nei fatti si allude a quella parte di popolazione scolastica che, per ragioni diverse, non realizza compiutamente il ciclo di studi obbligatorio. Si tratta, per così dire, di allievi “dispersi”: allievi il cui percorso formativo è caratterizzato più da lacune che da continuità educativa.
In Ticino la scuola dell’obbligo inizia all’età di 4 anni e comprende 11 anni di scolarizzazione. Nel merito la nostra legge è chiarissima: tutte le persone residenti nel cantone dai quattro ai quindici anni di età sono tenute all’obbligo scolastico, ovvero alla frequenza obbligatoria della scuola. La ragione di questa perentorietà è facile da comprendere: l’educazione non è solo un diritto fondamentale della persona, ma è anche condizione di appartenenza sociale, civile e culturale. In uno Stato democratico è la condizione stessa del senso civico: una vera e propria risorsa collettiva della democrazia.
Fino a qualche anno fa questo obbligo, fatta eccezione per casi realmente sporadici, era rispettato. Da qualche tempo tuttavia, e in misura crescente, le nostre scuole medie registrano un assenteismo preoccupante che coinvolge già le prime classi, ma si manifesta soprattutto nel terzo e nel quarto anno. I dati di cui siamo a conoscenza riferiscono di decine di allievi (forse addirittura oltre un centinaio) che totalizzano un numero inverosimile di ore d’assenza: più di 400. Forse non si tratta di vera e propria dispersione scolastica, ma questo è un inquietante campanello d’allarme.
L’assenteismo scolastico è una cartina di tornasole del rapporto fra l’intenzione educativa e la realtà sociale dentro la quale questa intenzione si colloca. Le sue cause sono complesse e sempre dolorose. Ve ne sono di personali e interne alla scuola (fobia della scuola, ansia da prestazione, paura del confronto, disturbi dell’apprendimento…) oppure esterne e per così dire sociali (condizioni socioeconomiche sfavorevoli, situazioni familiari disfunzionali…). In larga parte si può fare riferimento a un “male oscuro”, un profondo disagio interiore denunciato spesso da psichiatri e psicologi, che affonda le sue radici nell’odierna difficoltà dell’esperienza giovanile dentro una società “liquida”, priva di punti di riferimento riconoscibili. Alcune di queste realtà si manifestano poi in atti di bullismo, gesti e parole di violenza, microcriminalità, piccolo spaccio, condotte devianti in generale.
L’avvento del digitale, e di una certa virtualità relazionale, non aiuta: l’abuso dei social media può condurre a involontario isolamento, a dipendenza compulsiva, a disturbi del rapporto sonno-veglia. Le contingenze storiche poi (dal Covid alla crisi climatica e ambientale, dall’incertezza geopolitica e socioeconomica all’inquietante clima di guerra) concorrono a una più che comprensibile fragilità generazionale. Le implicazioni del fenomeno interpellano tanto la scuola quanto la società e la politica.
Siamo giustamente fieri, in Ticino, di una scuola dell’obbligo inclusiva e di qualità. È una realtà positiva che tuttavia richiede attenzione e cura: una ricchezza da preservare in funzione della coesione sociale e, come già dicevo, della vita democratica del Paese. Il rapporto che collega la scuola alla società dentro la quale essa si radica ha conosciuto, negli anni, una formidabile evoluzione. La scuola oggi è lontana dal detenere il primato della formazione e condivide il compito educativo con agenzie di socializzazione più duttili e più suasorie, che negli anni le sono cresciute accanto. Penso alla disponibilità crescente di attività del “tempo libero” (sportive, musicali, artistiche, socio-educative), ma anche alle possibilità offerte dallo sviluppo delle tecnologie digitali. Queste strutturano altre occasioni di crescita personale, ma non sempre veicolano modelli di nobile spessore etico.
La scuola è cambiata, ed è cambiata l’immagine pubblica della scuola stessa. Se per le generazioni passate lo studio, l’“andare avanti a studiare”, era sinonimo di un futuro migliore, oggi la scolarizzazione si colloca dentro una prospettiva più incerta. La percezione della scuola è assai meno legata a un possibile riscatto sociale, finendo per perdere di attrattiva. Davanti al mutamento del rapporto scuola-società, le riforme che hanno caratterizzato il settore dell’obbligo hanno inteso far fronte ai nuovi orizzonti antropologico-culturali ampliando lo spettro educativo dell’intervento scolastico. Hanno incluso nei piani di studio anche mandati attitudinali. Hanno posto in termini di competenza da acquisire persino il modo di stare al mondo, le cosiddette lifeskills (pensiero creativo e senso critico; comunicazione e relazioni interpersonali; autocoscienza ed empatia; gestione dell’emotività e dello stress). Tuttavia gli esiti di una “scuola delle competenze”, almeno per ora, non sembrano ripagare gli sforzi degli insegnanti. I risultati sono magri, mentre i piani di studio appaiono pletorici e ridondanti.
È legittimo allora chiedersi se l’attuale impostazione dell’insegnamento sia la migliore per affrontare l’incertezza esistenziale dei giovani e contribuire a un’educazione democratica. In verità sarebbe forse utile ridare senso alla scoperta cognitiva (versus la traduzione operativa della stessa), rimettendo al centro le discipline di studio, vale a dire le fonti epistemologiche che sono state la spina dorsale di un approccio umanistico all’educazione. È di senso valoriale infatti che si avverte oggi un bisogno impellente!
Negli anni abbiamo riformato i piani di studio sulla base di modellizzazioni nazionali e internazionali. Abbiamo dato alla scuola dell’obbligo un impianto maggiormente funzionalista. Abbiamo forse dedicato minore attenzione al concetto nobilmente politico di scuola come “istituzione educativa al servizio della persona e della società” (cfr. LSc, art. 1). È probabilmente da una diversa declinazione di questo principio fondativo (più attenta al valore, al senso e alla gratuità del pensiero educativo) che si dovrà ripartire.