Lo Stato d’Israele sembra aver perso da tempo la proporzionalità nell’applicazione della barbara legge del taglione. Secondo i dati pubblicati dalle Nazioni Unite, tra il 2008 e l’inizio delle recenti ostilità, Israele ha visto 308 suoi cittadini perdere la vita a causa dei palestinesi e ha risposto causando 6’407 morti al nemico, cioè vendicando ogni caduto israeliano con l’uccisione di venti palestinesi. Questo modo di agire, ormai divenuto prassi corrente, non ha mai sollevato reazioni di rilievo nel mondo politico occidentale. Sin dalla sua nascita Israele sembra godere di una certa impunità agli occhi dell’Occidente. Certamente il ricordo della shoah contribuisce alla perdita di razionalità nel nostro giudizio, ma c’è di più. Per capirlo è utile ripercorrere la storia della risoluzione 181 delle Nazioni Unite che permise la spartizione del territorio e la creazione dello Stato d’Israele. Il testo della risoluzione fu redatto da un comitato con la partecipazione degli Ebrei, ma da cui gli Arabi furono esclusi. Ne scaturì una risoluzione che prevedeva che gli Ebrei, con una popolazione pari al 33% degli abitanti del territorio da spartire, ne ricevessero il 56%, inclusi i territori più fertili e le principali risorse idriche. Con enormi pressioni e dopo ben tre votazioni, la risoluzione venne finalmente adottata dalle Nazioni Unite. Interessanti le note del presidente Usa Truman sull’argomento: “È un fatto che non solo ci sono stati movimenti di pressione intorno alle Nazioni Unite come mai si era visto prima, ma che anche la Casa Bianca è stata sottoposta a un costante bombardamento. Non credo di aver mai subito tante pressioni alla Casa Bianca come in questo caso. La persistenza di alcuni leader sionisti estremi – mossi da motivazioni politiche e impegnati in minacce politiche – mi ha disturbato e infastidito”. Meno diplomatico il Primo Ministro indiano quando affermò che i sionisti avevano cercato di corrompere l’India con milioni di dollari e allo stesso tempo sua sorella, ambasciatrice indiana all’Onu, aveva ricevuto avvertimenti quotidiani che la sua vita era in pericolo se non avesse “votato bene”. Queste due testimonianze danno un’idea della potenza delle lobby sioniste, capaci di influenzare in modo determinante le Nazioni Unite, gli Usa e altri Stati sovrani con ricatti e corruzione. E siamo nel 1947, con le comunità ebraiche ridotte allo stremo dalle barbarie naziste. È dunque facile immaginare che, nei decenni di prosperità seguenti, le lobby sioniste e filoisraeliane – in particolar modo negli Usa – abbiano potuto potenziare la loro influenza sulle istituzioni e sui media. Non che fosse necessario, perché già nella guerra iniziata all’indomani della proclamazione dello Stato di Israele, le sue forze armate fermarono gli invasori libanesi, siriani, iracheni, egiziani e giordani, li respinsero e conquistarono nuovi territori, portando dal 56 al 78% il territorio palestinese occupato dal neocostituito Stato e provocando i primi 700’000 profughi, definiti come quegli abitanti della Palestina che hanno perso sia l’abitazione che i mezzi di sussistenza a causa della guerra. Guerre e occupazioni successive hanno portato il loro numero a 5,9 milioni. E la storia continua e si ripete, anche perché quando l’ambasciatrice israeliana in Svizzera, alla presenza di un consigliere federale, afferma: “Sono qui per chiedere che si permetta a Israele di terminare il lavoro” – quel lavoro che ha già fatto 8’525 morti e 2’000 dispersi nella prigione di Gaza –, nessuno risponde. Chi tace acconsente, e la neutralità diventa complicità in genocidio.