Il nuovo governo italiano ha istituito il Ministero dell’educazione e del merito. È sicuramente una decisione originale, da non sottovalutare. Nell’articolo dello scorso mese ho parlato delle diseguaglianze economiche, che oggi sono ampiamente giustificate e accettate con – oserei dire – rassegnazione. Da un punto di vista etico oggi le diseguaglianze vengono giustificate con il merito o la meritocrazia. In altre parole, se sei ricco è perché sei stato competente, se invece sei povero è perché non hai le capacità di fare meglio, come dimostrano diversi studi di economia sperimentale. Tuttavia, le diseguaglianze di mercato non sono dimostrabili in base all’idea meritocratica.
Dapprima vediamo quali sono i tre principi della meritocrazia: l’accesso alle carriere è aperto a tutti sulla base di una gara competitiva dove non ci sono ostacoli e le regole sono imparziali; il merito è un criterio dirimente per la vittoria, grazie a una combinazione di qualità naturali e di sforzo; il merito legittima le diseguaglianze nelle remunerazioni. Il mercato diventa l’elemento centrale per la concretizzazione del merito perché garantisce regole uguali per tutti, distribuisce il lavoro e le remunerazioni in base alle capacità e ha una visualizzazione decentralizzata. Inoltre, nel mercato c’è concorrenza e non ci sono barriere all’entrata.
Questa visione idilliaca si scontra però con la realtà: i mercati non sono concorrenziali perché esistono barriere all’entrata dovute a brevetti, marchi che rendono rigida la domanda e una tendenza alla concentrazione industriale (il 10% delle imprese quotate genera l’80% dei profitti). Se aggiungiamo anche le asimmetrie informative (ad esempio quando andiamo ad acquistare un’auto d’occasione), diventa chiaro che il “gioco” è truccato. Le disuguaglianze remunerative non sono dunque meritocratiche ma dovute al malfunzionamento dei mercati che creano situazione di non concorrenza.
Apparentemente introdurre il concetto di merito nella scuola e nella formazione (se ne parla anche da noi), appare una buona cosa solo che non è realizzabile. La base della meritocrazia è che le condizioni di partenza dovrebbero essere uguali per tutti, sia i per bambini poveri che per quelli benestanti. Già durante il percorso scolastico l’auspicio si scontra con la realtà. Figli di persone facoltose ottengono risultati generalmente migliori di quelli con genitori poveri e con uno scarso bagaglio intellettuale. Naturalmente ci sono le eccezioni. Ma anche immaginando di riuscire a introdurre nella formazione condizioni di partenza uguali per tutti come succede nei Paesi scandinavi, il merito potrebbe non emergere. Infatti, anche in questi Paesi a dominare è “l’aristocrazia dell’1%”: coloro che arrivano ai vertici dopo il percorso scolastico provengono prevalentemente da genitori appartenenti all’1 per cento.
Ma perché allora la meritocrazia non funziona nemmeno quando le condizioni di partenza sono fondamentalmente rispettate? La risposta è nel potere del lavoro, di chi assume che è confrontato con asimmetrie informative che, tramite il contratto, ci fanno entrare all’interno di una gerarchia che è, per sua natura, soggettiva e gerarchica. L’evoluzione del mondo del lavoro negli ultimi decenni ha poi reso difficile identificare l’autore del valore raggiunto e quindi attribuirgli il giusto compenso. Se a questo si aggiunge l’accresciuto potere dei vertici aziendali, l’indebolimento del potere (contrattuale) dei lavoratori, e la globalizzazione che ha comportato una forte pressione sul lavoro, ipotizzare una distribuzione dei redditi secondo il merito diventa una chimera. Invece di essere meritocratico il mercato del lavoro è sempre più asimmetrico e favorisce la dirigenza e gli azionisti, come confermano i dati sui differenziali tra salario medio e salario della dirigenza (cresciuto di circa 50 volte negli ultimi quattro decenni).
Ma perché oggi, nonostante l’evidenza anche empirica, si continua a discutere di meritocrazia? Il primo motivo è storico. L’approccio meritocratico è nato alla fine del ’700, quando il mercato del lavoro era dominato da artigiani e lavoratori indipendenti e quindi chi era bravo poteva imporsi, in un ambiente economico in profondo cambiamento ed evoluzione. Oggi la maggioranza dei lavoratori è dipendente, senza potere contrattuale, all’interno di strutture estremamente gerarchiche. Il secondo motivo è il caso. Warren Buffet ha affermato che pur essendo bravo nel suo lavoro (investitore) ha potuto diventare multimilionario perché è nato in un Paese (gli Usa) dove le sue capacità sono state valorizzate. In altre parole, il luogo dove nasci, le origini sociali, il contesto economico, il livello tecnologico sono quasi sempre determinanti per il successo, indipendentemente dalle capacità.
Parlare quindi di meritocrazia oggi è semplicemente fuorviante; i veri problemi (da risolvere) sono ben altri e molto più complessi.