Inclusione e differenziazione pedagogica. Su queste basi spinte all’eccesso si è basata l’impostazione strategica del Decs in questi anni. In parte si può senz’altro condividere questa strada; tuttavia non mancano alcune criticità, che sembrano emergere sempre maggiormente. Queste ultime vengono sollevate da alcuni attori della scuola e pure dalla politica, ma sovente non vengono considerate. E questa poca propensione all’ascolto e una certa rigidità di pensiero non sono un buon segno per la scuola.
Da quando sono in Parlamento, dall’aprile del 2019, vengo regolarmente contattato da docenti e direttori di ogni ordine della scuola dell’obbligo, i quali manifestano insoddisfazione per le proprie condizioni di lavoro, anche a seguito degli indirizzi intrapresi appena citati. Docenti che perdono l’entusiasmo, che meditano di ridurre il proprio onere lavorativo o perfino di prendersi una pausa dall’insegnamento.
Dalla mia esperienza di 25 anni di docente alle Elementari, cerco sempre di considerare con obiettività queste criticità che mi vengono rivolte. Evidentemente, come peraltro qualcuno fa, sarebbe scorretto e semplicistico ribaltare tutte le colpe sul Decs. Io sono però convinto che una politica d’inclusione acritica e un inno alla differenziazione pedagogica non siano necessariamente positivi per la scuola.
L’inclusione è certamente un obiettivo da perseguire come mezzo di coesione sociale importante, ma non un fine da perseguire ad ogni costo. Se portata all’eccesso, produce effetti indesiderati negli allievi (sia nei più bisognosi di attenzione, sia in coloro che hanno altre capacità da sviluppare) e pure nei docenti (che seppur supportati da molte-troppe figure sono in difficoltà). Oltre ad arrischiare di livellare verso il basso le competenze individuali degli studenti, un’eccessiva inclusione focalizza troppo l’attenzione e l’impegno dei maestri sulla gestione comportamentale della classe, anziché sull’insegnamento di contenuti e sulle competenze trasversali degli allievi. Mi pare ovvio che non occorra perseguire rigidamente queste tendenze, bensì trovare altre modalità che mirino a un’inclusione equilibrata e arricchente per tutti. L’anno scorso, in Parlamento, salutavo di buon occhio l’avvio del progetto denominato "Ripensare l’inclusione". Sono pertanto in attesa di conoscerne gli esiti.
Altresì, l’ostentata volontà di perseguire la differenziazione pedagogica è a mio avviso smisurata. Addirittura c’è chi parla di insegnamento individualizzato! A parte il fatto che ogni docente sa che l’attenzione al singolo e alle proprie caratteristiche è centrale in classe; tuttavia, uno degli aspetti più importanti della scuola è il fatto di essere insieme, di avere relazioni che si sviluppano tra allievi e docenti, con indubbi benefici. Ma il valore educativo è legato pure all’apprendimento cognitivo tendente a favorire il senso di responsabilità individuale e i doveri dell’allievo. Perciò, più che una continua ricerca della differenziazione pedagogica, che diviene sempre più proibitiva per i docenti, la scuola ticinese (e qui mi riferisco soprattutto al secondo biennio della scuola media) dovrebbe pensare a una diversificazione dei contenuti in relazione a potenzialità, interessi e bisogni dell’allievo.
Insomma: agendo con maggior flessibilità e realismo, dimostrando cioè di conoscere e ascoltare per davvero il mondo della scuola, anche le politiche di inclusione, differenziazione pedagogica e diversificazione dei contenuti potrebbero apportare maggiori benefici a tutti gli attori coinvolti, non solo agli allievi.