"Ogni spostamento verso il centro aliena la base di sinistra, e suggerisce a tutti gli elettori che la ragione sta dall’altra parte". Il linguista americano George Lakoff è noto come specialista delle metafore, allora quando parla di sinistra è bene chiedersi cosa sia, questa cosa, fuor di metafora. A maggior ragione di questi tempi in cui l’abuso di parole rende difficile la comprensione del loro vero significato politico.
A interrogare la sinistra tutta, dalla socialdemocrazia alla sinistra radicale, è la crisi del modello neoliberale che ha caratterizzato gli ultimi decenni di crescita economica e sociale. Stiamo vivendo una vera e propria crisi della globalizzazione, che ne rivela tutti i difetti strutturali. La comparsa del virus è strettamente legata all’estremo sfruttamento degli ambienti naturali, in particolare nei Paesi emergenti. Gli shock che minano l’assetto economico globale, amplificati dalla guerra in corso, svelano la fragilità di un’economia mondiale basata sulla rete di catene di approvvigionamento di merci e materie prime in cui centrali sono la riduzione dei costi del lavoro e la massimizzazione dei profitti delle multinazionali, in particolare nel settore energetico, nella raffinazione e nel trasporto. Il ritorno dell’inflazione è la conseguenza del rafforzamento dei mercati finanziari e della loro componente speculativa, di quel ‘fare denaro con denaro’ che, storicamente, è all’origine della distorsione nella ripartizione del valore e della perdita generalizzata di potere d’acquisto.
Per combattere l’inflazione, le banche centrali fanno leva sugli aumenti dei tassi d’interesse che, del tutto inoperanti di fronte all’impennata dei prezzi energetici e alle difficoltà di approvvigionamento, di fatto mirano a provocare una recessione forte quanto basta per moderare le rivendicazioni salariali. Con l’aumento del costo del credito, e del debito, gli Stati ne approfittano per ridurre ulteriormente i loro margini di manovra per sostenere il potere d’acquisto delle famiglie, senza comunque abbandonare l’idea balzana secondo cui gli sgravi fiscali per i più ricchi sono il modo più efficace di far sgocciolare la ricchezza verso i più poveri.
Se il pendolo della storia si sta allontanando dall’integrazione economica globale, ci vorranno però decenni prima di ristabilire un più equo rapporto di potere tra capitale e lavoro, a meno di cambiare strategie di lotta e di mobilitazione. La crisi della globalizzazione ci porta infatti in una nuova era in cui la sostenibilità locale diventa prioritaria rispetto alla crescita globale. La spinta verso la localizzazione non esaurisce certo la natura globale dell’economia, a maggior ragione nell’epoca della digitalizzazione, ma costringe a ripensare le regole del commercio, del lavoro e del rapporto costi e benefici in ogni decisione di strategia economica. I luoghi prendono il posto dei modelli econometrici impersonali ("né di destra né di sinistra") che hanno plasmato le società nel tempo della globalizzazione. All’efficienza dei modelli degli economisti liberisti, basata sulla nozione astratta di forza-lavoro, si sostituiscono i modelli della resilienza, in cui le comunità locali, le persone, assumono una nuova rilevanza politico-strategica.
Questa transizione storica dal globale al locale è tutta iscritta nella crisi dell’idea che valori, sistemi politici e interessi nazionali siano meno importanti delle pure forze di mercato. Per questa ragione, il governo di questa trasformazione non è meramente economico, è invece prevalentemente politico, come dimostrano gli attacchi ai diritti civili e alle forme di vita che la destra sta sferrando per conquistare consenso elettorale. La Brexit, l’elezione di Donald Trump e le recenti elezioni in Italia, confermano però anche la distanza, quando non il divorzio, tra gli elettori e i modelli economico-elettorali basati sul paradigma della crescita in chiave globale. Non sono la crescita, o la speculare decrescita, il pomo della discordia. La sfida sta piuttosto nel riconnettere la ricchezza creata all’interno degli Stati nazione, all’interno degli spazi locali, con mercati globali sempre più competitivi e concorrenziali.
A questa sfida, la sinistra si presenta con la sua storia, in cui si esclude che il suo popolo possa marciare unito, in cui gli sforzi di mettere assieme le sue anime in una strategia di area sono sempre difficili o vani. Ognuno teme di perdere la propria autenticità se si unisce agli altri, benché la ricerca di autenticità svolga un utile ruolo di elaborazione teorica e di vigilanza contro eventuali sbandamenti verso posizioni liberiste. Non è detto che marciare disuniti, perfezionando la propria specifica identità, scrutandosi a vicenda e liberandosi dei furbastri, sia la cosa peggiore da fare. Oggi, però, il problema è un altro, ossia quello di riuscire ad elaborare una strategia politica in cui la relazione tra crisi ecologico-climatica, crisi della crescita globale e crisi della democrazia sia esplicita e programmatica. È una sfida che non ha pari con tutto quello che abbiamo conosciuto, che esige la costruzione di uno "spazio generativo" di invenzione e di sapere concreto "capace di mobilitarci e di spingerci oltre angoscia e paura" (Marco Deriu).
Che il programma rosso-verde sia anche il risultato di un calcolo elettorale, è indubitabile.
La questione è però quella di trasformare una vecchia tattica in una nuova strategia. Per riprendere un vecchio adagio ecologista, occorre "pensare globalmente e agire localmente", mettendo a frutto i saperi pratici che i movimenti ambientalisti, prima di tutti gli altri, hanno sviluppato in questi ultimi decenni. È una questione di programma, di strategia istituzionale, ma anche di orecchie capaci di ascoltare il rumore profondo della resistenza.