Archiviata l’illusione circa la ‘fine della Storia’, avanzano autoritarismo e sovranismo. Se ne parla domani all’Usi
Non è trascorso molto tempo da quando, non senza una certa euforia, si celebrava il trionfo storico delle democrazie liberali. Lo stracitato Francis Fukuyama parlava, già all’indomani della caduta del muro di Berlino, di "fine della Storia". E in quegli anni la Storia sembrava dar ragione al professore di Stanford: il XX secolo si concludeva con l’implosione di diversi regimi autoritari o dittatoriali e la diffusione su vasta scala – dall’Europa orientale all’America Latina – dei modelli basati sullo Stato di diritto e le varie libertà, di pensiero, movimento, religione, oltre a quella economica.
Ottimismo eccessivo, considerando che in una ventina d’anni il numero dei sistemi che possiamo considerare non democratici è tornato a prevalere. Si sono verificate in parte le messe in guardia del controverso teorico conservatore Samuel Huntington, secondo cui la fine del bipolarismo avrebbe risvegliato la forza centrifuga dei nazionalismi e delle componenti culturali rimosse per decenni. L’aveva azzeccata anche il meno noto Ken Jowitt, politologo pure di Stanford: in ‘The New World Disorder: The Leninist Extinction’, pur concordando con Fukuyama sul fatto che nessuna ideologia universale sarebbe stata in grado di contrastare la democrazia liberale, aveva previsto un nuovo "disordine mondiale ", una sorta di eruzione vulcanica a base di vecchie identità tribali, religiose, identitarie.
L’involuzione democratica promossa dai movimenti identitari ribolliva già allo stato embrionale a cavallo del millennio, con l’ascesa della Fpö di Jörg Haider nel 1999 in Austria e quella di Jean-Marie Le Pen in Francia, fermato tre anni più tardi da Jacques Chirac al secondo turno delle Presidenziali. Il populismo di estrema destra ha poi travolto gli argini e con essi la tradizionale democrazia rappresentativa: dalla Russia di Putin alla Turchia di Erdogan, all’Ungheria di Orbán o la Polonia di Kaczynski e poi Duda, la grande regressione antidemocratica non ha fatto che crescere. La parola chiave è diventata "sovranismo", un cocktail ideologico nel quale ritroviamo quali ingredienti di base l’invocazione ripetuta al popolo e una stigmatizzazione delle élite.
A seconda degli orientamenti politici, possiamo poi individuare diverse componenti aggiuntive. A cominciare dalla difesa della tradizione e della cultura identitaria, come nel caso della Turchia che rispolvera il passato imperiale ottomano e l’Islam politico, di Narendra Modi che promuove un induismo aggressivo, o della Polonia che esalta le proprie radici cristiane. Non manca la riscoperta di una ruvida matrice culturale patriarcale: nel decreto firmato nel 2014 da Putin ("La Russia non è l’Europa") troviamo un’aperta ostilità nei confronti della civiltà occidentale, del multiculturalismo, di una cultura europea di "castrati e sterili". Nel calderone finisce anche la democrazia rappresentativa con le sue libertà.
Il nazionalismo estremo e le sue derive xenofobe, cifra dell’estrema destra, sbarcano prepotentemente anche negli Stati Uniti con la vittoria di Donald Trump nel 2016. Con il motto "America first", il neoeletto presidente avvia un mandato in cui fa vacillare il tradizionale assetto della prima democrazia dell’epoca moderna, mostrando scarso rispetto per la separazione dei poteri, per il ruolo del legislativo, per le istituzioni. Oltre che per la realtà dei fatti: le sue sono "verità alternative", concetto che apre il vaso di Pandora delle incongruenze e degli ossimori. Poco importa, il miliardario imprenditore può presentarsi come il campione della lotta contro le élite e contro la globalizzazione neoliberale.
A monte della crisi della democrazia liberale moderna, vi sono senza ombra di dubbio proprio i processi di globalizzazione iniziati negli anni 70 del secolo scorso. Globalizzazione a cui si associa comunemente il termine neoliberale o liberista (quest’ultimo concetto esiste solo in italiano). In sostanza, una mondializzazione basata su una forte deregolamentazione dell’economia e un indebolimento molto marcato dello Stato e dei poteri pubblici.
Il liberalismo politico è a torto spesso considerato sinonimo di liberismo. Si tratta di una confusione di termini tanto diffusa quanto carica di malintesi. Nel mondo anglosassone, ad esempio, "liberal" rimanda a una visione progressista che promuove una società liberale aperta, una presenza importante dello Stato e un’impostazione economica keynesiana. Il liberismo invece tende a identificarsi con il "laissez-faire" teorizzato nell’800 dall’economista francese ed esponente del giusnaturalismo Frédéric Bastiat e che trova nel XX secolo i suoi massimi esponenti nell’austriaco Friedrich Von Hayek e in Milton Friedman (capostipite della "Scuola di Chicago"), entrambi insigniti del Premio Nobel dell’economia. Ma c’è chi come Luigi Einaudi, filosofo ed economista nonché presidente italiano nel 1948, ricorre al termine liberismo semplicemente come emanazione economica del liberalismo politico.
Che il pensiero liberale in economia non sia monolitico e contempli importanti variazioni lo dimostra quell’ambiguità sul ruolo dello Stato che troviamo già ai suoi albori: negli scritti di Adam Smith, pur promuovendo il libero mercato, non si esclude in diversi casi un ruolo interventista dello Stato. Sta di fatto che fu proprio l’ondata liberista di Margaret Thatcher e Ronald Reagan a preannunciare la globalizzazione su scala internazionale che è alla base della crisi della democrazia liberale. Si pensava che un’economia globale basata sul libero mercato e l’iniziativa privata fosse in grado di appianare le differenze culturali, religiose e di portare pace, prosperità e giustizia. Ma così non è stato. Le disuguaglianze sociali, che erano calate nei decenni del capitalismo interventista del dopoguerra, hanno cominciato a esplodere con la deregulation. Oggi hanno assunto dimensioni stratosferiche: in India l’1% più ricco detiene il 60% della ricchezza, in Cina il 44%, negli Stati Uniti il 42%. Pur avendo portato anche benessere, la mondializzazione ha scalzato il vecchio ordine senza proporre un’alternativa valida. "There is no society", aveva esclamato la premier Thatcher in un celebre discorso. Come dire che il nuovo ordine si fondava sulla centralità dell’individuo e la sua infinita libertà. Che però a volte è stata quella della "libera volpe in libero pollaio".
La globalizzazione ha portato indubbiamente anche ricchezza, come ribadiscono giustamente i suoi paladini. Come un liquido che circola in vasi comunicanti, tende a raggiungere un livello omogeneo, favorendo così gli uni (in molti casi poveri e classi medie dei Paesi in crescita) e sfavorendo gli altri, a cominciare dai settori più fragili dei Paesi ricchi, quelli ad esempio colpiti dalla delocalizzazione delle industrie. Già nel 1944 Karl Polanyi, antropologo ed economista, metteva in guardia contro la mercificazione del lavoro e del territorio che rischiava di minare le basi sociali. Il grande sociologo polacco Zygmunt Bauman ha riassunto con il concetto di "società liquida" questa distruzione dell’identità collettiva che provoca il nuovo assetto globale: "Abbiamo l’impressione di perdere il controllo delle nostre vite e di essere ridotti a pedine mosse in avanti e indietro su una scacchiera da giocatori sconosciuti e indifferenti ai nostri bisogni". Con una formula efficace, il sociologo spagnolo Manuel Castells aveva definito la globalizzazione come il passaggio delle sovranità dalla politica ai mercati. Così la globalizzazione ha sostanzialmente emarginato la politica.
Ampie fasce della popolazione, in particolare nei Paesi ricchi, percepiscono la globalizzazione come una minaccia identitaria ed economica. Non ne vedono i vantaggi, ma solo gli inconvenienti. L’Europa, che è anche baluardo contro i suoi eccessi (per esempio nei confronti della Cina), è spesso vista unicamente come strumento della liberalizzazione dei mercati. Le correnti liberiste ("libertarian" nel mondo anglosassone) contestano il principio secondo cui la crisi delle democrazie sarebbe dovuta a uno sfilacciamento dei poteri pubblici e del welfare. Anzi, all’origine del malessere sociale vi sarebbe il ruolo esagerato dello Stato, con la sua spesa pubblica e la fiscalità eccessiva che compromettono la crescita economica e lo sviluppo individuale e sociale.
Si tratta di una narrazione poco convincente, ma da non scartare in tutti i suoi aspetti: un eccesso di spesa pubblica (come in Francia o in Italia) si ripercuote sui prelevamenti obbligatori delle aziende e il debito pone una forte ipoteca sulle generazioni future. Il problema è che la democrazia liberale si fonda su premesse che ha difficoltà a garantire nel difficile equilibrio tra creazione e distribuzione della ricchezza, tra libertà economica e sicurezza sociale. Un rompicapo che spiega l’attuale instabilità politica. Ralf Dahrendorf, filosofo liberale, aveva predetto un XXI secolo all’insegna del risentimento sociale e della demagogia. Previsione azzeccata. Certo è che né il populismo urlato di destra o sinistra, né i regimi autoritari od orwelliani costituiscono oggi un’alternativa valida e auspicabile alla democrazia liberale. All’interno della quale vanno trovate le vie d’uscita dalla crisi.
Di ‘Attacco allo Stato liberale’ si parlerà domani all’Auditorium dell’Università della Svizzera italiana a Lugano, ore 18.30. A confrontarsi, nell’incontro organizzato dal Circolo liberale di cultura Carlo Battaglini, saranno Carlo Lottieri, filosofo e cofondatore dell’Istituto Bruno Leoni, e Lucio Caracciolo, storico direttore di Limes, rivista italiana di geopolitica. A moderare sarà il giornalista Roberto Antonini. Fondato nel 1964, il Circolo si ispira alla figura del ‘Ribelle di Cagiallo’ Carlo Battaglini (1812-1888), tra i padri nobili del liberalismo ticinese, sindaco di Lugano, deputato di lungo corso al Gran Consiglio ticinese, Consigliere nazionale e agli Stati.