Di recente su "Machina", il blog di Derive e approdi, casa editrice (e progetto editoriale tout court) notoriamente orientato a sinistra, è stato pubblicato un articolo interessante sulle recenti elezioni in Italia in relazione al tema del femminismo. Mi sono decisa a leggere l’articolo, firmato dalla filosofa Valeria Finocchiaro, perché è stato molto condiviso e letto nella blogosfera e perché volevo mettermi alla prova, uscire dalla comfort zone, sviluppare un pensiero critico un po’ più acuto sulla questione. Metto subito sul tavolo il succo della questione: per Finocchiaro l’elezione di Giorgia Meloni, quindi di una donna, non importa di quale schieramento, con quali idee politiche, rappresenta un passo in avanti per la condizione femminile. Questo, ovviamente, mi porta a leggere l’articolo con un incontrollabile borbottio di pancia, ma decido di immergermi in questa esperienza totalmente, senza barriere o pregiudizi. A fine lettura (e rilettura) devo ammetterlo: il pezzo è argomentato ottimamente. L’idea di fondo su cui si basa l’argomentazione è quella dell’eterogenesi dei fini, ovvero il principio secondo il quale le azioni umane possono riuscire a fini diversi da quelli che sono perseguiti dal soggetto che compie l’azione. "Al nocciolo del femminismo, al netto dei suoi – pur drammatici e inevitabili – conflitti interni, c’è l’idea che il sesso biologico non debba predeterminare il destino di un individuo, i suoi desideri e il suo ruolo nel mondo – scrive Finocchiaro, iniziando con un’ottima definizione del raggio di azione, della tematica. "Proviamo a immaginare cosa comporterebbe per noi – donne di sinistra, abituate da sempre a credere che il femminismo non possa darsi senza lotta di classe o senza lotte di altro tipo, e in generale abituate implicitamente a credere che il femminismo non possa darsi senza il nostro assenso –, se fossimo costrette ad ammettere che l’elezione di Giorgia Meloni (persona che rappresenta tutto ciò contro cui abbiamo sempre combattuto) costituisse un passo avanti per la condizione femminile (ciò per cui abbiamo sempre combattuto). Ci troveremmo senza dubbio di fronte a una bella contraddizione". Non posso darle torto. Il fatto che una donna abbia vinto le elezioni in Italia, per quanto sia fra le donne che meno mi rappresentano da un punto di vista politico, dovrebbe farmi gioire come cittadina europea, pur con il mal di pancia di non ritrovarmi minimamente con i suoi argomenti, i suoi obiettivi politici, le sue visioni della realtà (anzi: di aborrirle). Scrive Finocchiaro: "Da questo punto di vista, si può dire che il femminismo è quell’insieme che comprende, insieme ad altri, tutti quei processi di emancipazione delle donne dallo storico dominio maschile; in questo senso, che ci sia una donna premier – anche se favorevole a un’idea dei rapporti tra i generi di stampo tradizionale – è un fatto storico da interrogare senza pregiudizi ideologici. Se neghiamo che una simile circostanza abbia a che vedere con il femminismo, allora stiamo negando al femminismo un suo spazio di esistenza autonomo". È un ragionamento ineccepibile, non fa una piega.
C’è un grande "ma", che Finocchiaro tocca solo in parte, asserendo che "dovremmo piuttosto liberarci dall’idea per cui il femminismo equivale automaticamente all’avvento di un mondo migliore, ecologico, sostenibile, pieno di amore". Io stessa credo che una donna non debba coincidere con l’ideale stereotipato con l’essere angelicato, privo di macchie, per avere un suo spazio nella società. Ma forse non è corretto pensare al femminismo come a un valore assoluto, soprattutto quando non stiamo parlando di quote rosa all’interno di un’azienda o di un consiglio direttivo, ma di un ruolo politico. Non ce ne facciamo niente (o ce ne facciamo poco, poco o niente) di un punto in più nell’agenda della causa femminista se essa non si porta appresso tutti gli altri valori importanti e fondamentali per la cittadinanza. Così come oggi non ci basta la ridistribuzione delle risorse fra le classi che non contempli altre questioni (quella di genere, per esempio). Il ragionamento di Finocchiaro è lucido, più di quello di Murgia che si arrampica un po’ sui vetri quando parla di Giorgia Meloni, ma tralascia un punto: ogni valore non ha senso se va per il suo percorso da solo, senza costruire un dialogo con gli altri valori che gli sono vicini (e che dovrebbero nutrirlo).