La polemica relativa al concerto bernese dei Lauwarm è una sagra del piagnisteo
Sono spesso titubante nell’affrontare le sagre del piagnisteo e la polemica relativa al concerto bernese dei Lauwarm mi pare rientri a pieno titolo nella categoria.
Sono titubante per vari motivi. Mal tollero il manicheismo che contraddistingue ormai qualsiasi dibattito. Inoltre, la mia personale filosofia di vita mi insegna che chi è in buona fede protesta, ma discute con pacatezza e non manca mai di rispetto, chi è in malafede si lagna, grida, irride e alza il muro. Infine, non meno importante, c’è la mia antipatia super partes verso l’abuso di espressioni e vocaboli: vale sia per chi, dopo una vita passata ad associarlo agli all-you-can-eat, abusa del termine "woke", quanto per coloro che, sull’onda d’una mediocre politica neozelandese, usano ad mentula canis l’espressione "ok boomer" pure con chi boomer non è (specie noi della generazione X, l’unica il cui nome è stato ispirato da un’opera letteraria a noi dedicata: dubito capiterà alle altre).
Mi è però difficile restare indifferente all’episodio perché, occupandomi di sottoculture, so bene quanto siano un terreno insidioso, ancor più quando vi s’intreccia l’elemento razziale o postcoloniale.
Uno dei principali autori di riferimento in quell’ambito, nonché uno dei primi teorici del multiculturalismo, è un autore britannico nato proprio in Giamaica, Stuart Hall. Hall utilizzò un simbolo della "britishness", la tazza di tè (indiano) con lo zucchero (caraibico), come metafora per spiegare quanto la storia occidentale fosse legata in modo inscindibile alla "storia dell’altro", anche in rituali che ci appaiono ormai "nostri". Dubito però che la maggiore consapevolezza degli occidentali sul lato oscuro della propria storia, rivendicata da Hall, equivalesse per assurdo al volergli proibire tè e zucchero o, almeno, ricordargli sistematicamente quanto siano stati cattivi, magari scrivendolo sulle bustine. L’episodio di Berna è invece accaduto davvero: pur essendo anch’esso assurdo, e ritenendolo tanto inaccettabile quanto controproducente, preferirei diventasse un’occasione di dialogo. Invece ho visto gongolare tanto chi l’ha strumentalizzato quanto chi è stato disposto a difendere pure i contestatori della Brasserie Lorraine, pur di dar torto all’odiato avversario (a meno che non siano davvero felici si sia imposto il pensiero di chi ha dedicato l’intera carriera a riscrivere vocabolari).
Personalmente, al cancellare, censurare e neutralizzare preferisco da sempre affiancare e moltiplicare storie, simboli e interpretazioni, ma sono consapevole che eccessi di zelo sono sempre esistiti e sempre esisteranno. Nessuno creda che abbia gradito, nel bel mezzo della visione di "Anna" di Lattuada, sentir censurato un vecchio brano in spagnolo, "El Negro Zumbon". Nemmeno amo, prima di un film di 80, 90 o 100 anni fa, sorbirmi pallosi disclaimer, che dicono in pratica "Ehi! Guarda che i tempi son cambiati" (come se fossi cretino e non lo sapessi da me). Roba da "iscriversi ai terroristi" (cit.). Sono pronto ad accettarlo, davvero, a patto che conduca a un dialogo costruttivo e si torni disposti ad ascoltare tutti: sia chi cerca tale dialogo, sia chi urla al razzismo pure davanti a una tavoletta di cioccolata bianca. Sia chi esprime con pacatezza legittime perplessità di fronte a certe derive, sia chi lo irride e chiude il dialogo, magari con l’ennesimo "ok boomer". Sia chi ricorda come non ci sia nulla di più ingiusto dell’essere giudicati in un tempo che non sia il proprio, sia chi erige barricate cercando l’ennesima censura/divieto/taglio di un’opera di secoli fa (perché rivendicare, per dire, il diritto al lavoro è ormai fuori moda). Sia chi protesta in modo intelligente, sia chi si lamenta di contestatori meno intelligenti, spacciandoli però per tutto l’insieme.
Perché, a questo punto, credo che la cosa più importante non sia nemmeno stabilire definitivamente chi abbia torto e chi abbia ragione: per quanto mi riguarda, basta capire chi sia in buona fede e chi no.