Di ciò si sta discutendo, a proposito di Ucraina, da nostrani scranni social o cartacei.
La prima. Da cotanti pulpiti si proclama che non prendere posizione "senzaseesenzama" (cioè con totale adesione) in favore dell’Ucraina, del suo presidente-eroe e dell’immancabile vittoria sul bieco invasore significa essere ambiguo, addirittura filoputiniano; coloro che distribuiscono questa patente di indegnità morale dovrebbero peraltro citare qualcuno che da noi possa essere definito tale, ma a seguito di verificabile esercizio di obiettività di analisi, non a chiacchiere o a slogan da aperitivo del giovedì. Insomma, certuni costruiscono categorie arbitrarie che elevano in paradiso loro e chi la pensa come loro e precipitano all’inferno tutti gli altri, ma proprio tutti; anche qualche papa o qualche loro antico maître à penser. Ne fanno una legge superiore mentre non è altro che una versione adattata del solito "argomento fantoccio", e la usano sia per autocertificare la propria superiorità morale sia per privare di legittimità le opinioni altrui, che diventano errori di fatto e quindi censurabili in quanto indegni di essere sostenuti pubblicamente. Per fortuna qualcuno sta ora dicendo a costoro che le tifoserie da ultras non vanno bene nel calcio, figuriamoci nell’analisi politica, e che solo riconoscendo la complessità del reale, cercando di spiegare (non: giustificare; bisogna sempre dirlo, per non essere di botto precipitati nell’inferno di cui sopra), applicando elementari principi di lucidità, è possibile capire e forse operare con qualche possibilità di successo in favore di soluzioni ragionevoli. Detentori della verità ultima, i cantori del manicheismo argomentativo non sentono ragioni, replicando in pensose lenzuolate le solite semplificazioni da social, proprio le stesse di cui si lagnavano prima dell’invasione.
La seconda. Forse un nostro impalpabile governante, ma di sicuro noi tutti, abbiamo dovuto prendere atto che l’adozione di sanzioni contro la Russia ha azzerato la capacità del nostro Paese di continuare qui nel solco della nostra secolare, e feconda sotto parecchi/troppi punti vista, politica di "buoni uffici". Sono poco sensibile alle dotte e farmacistiche discussioni in corso tra giuristi a proposito della compatibilità tra la neutralità elvetica e le scelte politiche adottate dopo l’invasione dell’Ucraina, anche se mi convince assai un’idea dinamica di neutralità che metta in primo piano i valori della democrazia ed eviti comportamenti troppo evidentemente pilateschi ed egoistici (per dire: quelli adottati da noi negli anni nei riguardi di Rhodesia e Sudafrica, o quelli nei confronti della politica americana in Sudamerica o in Estremo Oriente). Quello che conta, come anche un giurista di primo anno sa, è che la terzietà e l’equidistanza (essenziali per una politica di buoni uffici) sono sì questioni di fatto, ma soprattutto di percezione. Nessun mediatore può pretendere di agire come tale se non è percepito dalle parti come "terzo", anche se dovesse esserlo nei fatti. "Essere come la moglie di Cesare"; un ben noto idiomatismo della lingua italiana, che allude appunto alla necessità non solo (un cinico direbbe: non tanto) di essere, ma anche di apparire, equidistante. Le reazioni del governante di cui sopra ("ce lo aspettavamo", "comunque non è una decisione definitiva"; e altre amenità del genere) testimoniano dell’incapacità di percepire qualcosa che invece dovrebbe essere ovvio e intuitivo. Ma sembra forse troppo chiedere, in una situazione nella quale si è deciso di abdicare al faticoso pensiero strutturato, tacciandolo di "ambiguità", per spingere invece sul pedale tragico della guerra (che ci costa poco, a morire sono gli altri) e quello un po’ autolesionistico delle sanzioni economiche (che stanno colpendo soprattutto chi le impone), con il grave corollario della perdita speriamo non permanente di un ruolo che tanto era parte della nostra identità.