laR+ I dibattiti

La scuola e il mercato

(Ti-Press)

Mancano un paio di settimane alla fine dell’anno scolastico.

È stato un altro anno difficile per la scuola, caratterizzato, almeno fino a febbraio, dalle misure di prevenzione pandemica e quindi segnato da condizioni particolari nella didattica in classe (il porto obbligatorio della mascherina, l’impossibilità di una migliore comunicazione empatica, il surrogato pedagogico di strumentazioni digitali e la necessaria assunzione di maggiori responsabilità individuali di studio).

La scuola ha saputo resistere con orgogliosa perseveranza, ma non senza pagare qualche scotto. Sappiamo infatti che tali condizioni hanno, nonostante l’encomiabile impegno delle direzioni e degli insegnanti, un impatto negativo sulle potenzialità di apprendimento (in particolare per gli allievi più fragili e provenienti da classi sociali sfavorite) e che la pandemia ha lasciato tracce di fragilità sociale e psicologica nella popolazione giovanile. Non stupisce dunque che un’indagine resa pubblica a fine aprile dal Sindacato indipendente degli studenti e degli apprendisti, abbia registrato i sintomi di un malessere scolastico che avvicina pericolosamente la condizione depressiva (per circa un terzo dei quasi 800 studenti che hanno risposto al questionario del Sisa). Sorprende invece, di fronte a un fenomeno acclarato, il sostanziale silenzio delle autorità politiche, che mentre si sono dimostrate giustamente sensibili e pronte nel varare misure di sostegno al settore economico-commerciale, hanno sottovalutato (ignorato?) il disagio giovanile.

Un paio di episodi recentemente riferiti dalla stampa locale (l’interruzione concordata con la polizia di una festa studentesca di fine anno a causa di un’aggressione violenta, l’irruzione in aula di un ex studente che sferra un cazzotto all’insegnante) ci offrono l’occasione per mettere l’accento sulla complessità odierna del mandato educativo. Sia chiaro che non si intende qui stabilire una correlazione stretta fra le condizioni emergenziali (al Covid si aggiunga la crisi climatica e ora la guerra in Ucraina, con il sentimento d’insicurezza e precarietà che ne consegue) e simili fatti di cronaca. Ma nulla ci vieta di abbozzare qualche spunto riflessivo sul senso e sui valori dell’istituzione scolastica.

Si potrebbe partire, per esempio, dal mandato educativo fissato nella nostra Legge della scuola, che le impone di essere "al servizio della persona e della società" (art. 1) nonché di perseguire lo "sviluppo armonico di persone in grado di assumere ruoli attivi e responsabili nella società e di realizzare sempre più le istanze di giustizia e di libertà" (art. 2).

Sono compiti che fan tremar le vene e i polsi, anche perché di certo non basta averli fissati in una legge per vederli realizzati. La sensazione è che nell’attualità cangiante del presente educativo la scuola a volte annaspi e misuri dolorosamente la distanza tra il mandato istituzionale e le condizioni date per la sua realizzazione. Certo, non vogliamo dire con questo che le preoccupazioni siano solo recenti o legate al presente. Non siamo ingenui: le difficoltà ci sono sempre state e in una certa misura "fare scuola" significa anche fare i conti con un’insoddisfazione quasi naturale per gli esiti raggiunti.

È però indubbio che negli ultimi decenni l’evoluzione socio-culturale, quella economica, tecnologica e dei processi d’acculturazione (si pensi alla globalizzazione), hanno posto la scuola di fronte a responsabilità sempre più gravose. L’imperante consumismo di beni materiali e immateriali, la dimensione effimera di un presente dagli incerti orizzonti valoriali e professionali la costringono a ragionare costantemente sul senso profondo e costitutivo (per la "persona" e per la "società", come recita la legge) dell’insegnare e dell’educare.

Sembra sia diventato viepiù difficile riconoscere un orizzonte di senso condiviso e nonostante gli sforzi di riforma (anzi, qualche volta come conseguenza degli stessi) si percepisce in sede scolastica una dolorosa crisi d’identità formativa. Chiediamoci con onestà: la scuola riesce ancora oggi a dare senso all’impianto politico-culturale che la dovrebbe informare? Siamo pronti a riconoscere nell’ideale umanistico, nell’emancipazione intellettuale della persona, nella sua crescita culturale, nell’acquisizione di un sapere critico, il fulcro del processo educativo?

Non abbiamo pretesa di aprire qui un dibattito approfondito sulle trasformazioni in corso. Ma possiamo abbozzare un paio di piste intorno alle quali ragionare insieme.

La prima è di natura pedagogica. Forse dopo anni nei quali ci si è concentrati sulle forme dell’insegnamento è tempo di tornare a occuparci di contenuti. La crisi di una scuola di conoscenze inerti (materie tra loro irrelate) ci aveva portato a rielaborare i traguardi in termini di competenze. Ma ci rendiamo perfettamente conto ora che non possiamo concepire l’allievo come un esecutore qualificato privo di un’identità culturale definita.

La seconda è di natura politica e sociologica. È in atto un progressivo passaggio di modelli e concezioni: dalla stabilità civile di una scuola come "istituzione dello Stato" alla flessibilità commerciabile di una scuola come "servizio educativo". Il che significa, in parole povere e grossolane, che la formazione della persona-allievo deve sempre più corrispondere ai mutevoli desiderata dei contesti (e gli allievi, ma soprattutto i genitori diventano "clienti" esigentissimi). Anche il mondo economico fa sentire apertamente le sue esigenze e avanza proposte per una riforma dei sistemi educativi. L’Associazione industrie ticinesi, per esempio, non si fa scrupolo nel richiedere una "scuola che s’adegui al mercato" (così il sito della Rsi del 12 maggio u.s. in margine alle tesi del presidente dell’Aiti). Per industriali e imprenditori occorrono misure incisive fin dalle scuole dell’obbligo: più tedesco, più competenze tecniche e digitali, più cultura d’impresa.

Saranno questi i nuovi contenuti di un mercato formativo "al servizio della persona e della società"?