La mistificazione del passato sta raggiungendo dimensioni inaudite. La storia dovrebbe ritrovare il suo ruolo nella formazione civile
Il Novecento si sta rivelando tutt’altro che breve; pare anzi lunghissimo, a giudicare dalle ombre che sta ancora gettando sul nuovo secolo in questi mesi di guerra, scanditi da attorcigliamenti sempre più inestricabili tra verità e falsità. Il destinatario ultimo (l’opinione pubblica incollata agli schermi) ne esce frastornato, smarrito al punto da non voler più credere a niente e nessuno: tanto è tutto propaganda, sia da una parte che dall’altra.
Che in tempi calamitosi la prima vittima sia la verità, è comprovato e risaputo. Ma ora siamo di fronte a dimensioni inaudite, con una disinformazione esaltata e amplificata da tecnologie che dal teatro di battaglia si sono dislocate nello spazio. Alle truppe di terra si sono aggiunti i battaglioni dei pirati informatici, unità specializzate nell’imbrogliare le carte, spacciatrici di verità false e falsità vere. La loro arma migliore consiste nel revocare in dubbio ogni acquisizione della ricerca condotta con metodi scientifici. La volontà di riscrivere la storia rientra in questa strategia, come pure la capacità di generare sospetti per incrinare/delegittimare il patrimonio delle conoscenze condivise. Ma siamo sicuri che le camere a gas siano esistite? Non è che nelle vene di Hitler scorresse sangue ebraico? Il confino inflitto agli antifascisti non era forse una forma di villeggiatura? In fondo ogni dittatore voleva bene al suo popolo, come dimostra il consenso di cui beneficiarono per lunghi anni.
Negare oppure minimizzare, ridurre le tragedie ad episodio, a banale accidente lungo un percorso altrimenti luminoso: è questa una mossa non nuova, ma che ora le reti sociali hanno ripreso, moltiplicato e infine seminato a manciate nei canali d’informazione più diffusi e accessibili.
Non è facile contrastare un tale dispiegamento di mezzi, sostenuto da potentati militari o da finanziatori occulti, svincolati da ogni controllo pubblico. Gli strumenti difensivi esistono, ma negli ultimi anni sono stati accantonati come ferraglia inutile. Alludiamo alla storia, «che non serve», o a discipline come la geografia (che ora vediamo rinascere sotto le spoglie di geopolitica). Eppure il riferimento al passato è costante in ogni discorso, com’è evidente anche in questo conflitto tra Russia e Ucraina. Non c’è decisione che non ricerchi nella galleria degli antenati un pretesto o una giustificazione. «Era già territorio che apparteneva al nostro impero». Oppure: «In quelle zone abita gente che parla la nostra stessa lingua o che professa la nostra religione». Non c’è potere che non esibisca nelle sue bacheche personaggi venerati, eventi memorabili, gesta eroiche: tradizioni spesso inventate di sana pianta oppure trasfigurate per un riutilizzo politico strumentale. L’unico antidoto valido risiederebbe nella ricerca libera e indipendente, nell’acribia degli studiosi, nel vaglio critico delle fonti e delle testimonianze. Ma sappiamo quanto sia impervia questa strada, soprattutto nelle autocrazie e nei Paesi che non vedono di buon occhio ogni tentativo teso a smontare le mitografie ufficiali.
Tuttavia non bisogna credere che la faccenda riguardi unicamente le dittature. Il passato è un campo di battaglia anche nelle democrazie, giacché la tentazione di appropriarsi di un filone o di una porzione di memoria è presente in tutte le collettività che portano in grembo il ricordo di laceranti fratture interne. Lo sa bene la vicina Italia, le cui ferite storiche ancora sanguinano, spaccando partiti e movimenti. Iniziative editoriali come quelle avviate dall’editore Laterza (collana "Fact Checking: la Storia alla prova dei fatti") e dalla Bollati Boringhieri (con i saggi di Francesco Filippi su Mussolini e il fascismo) sono lodevoli, ma a quanto pare ininfluenti nella discussione pubblica. Finché le autorità non decideranno di ridare alla storia il posto che le spetta nella formazione civile delle giovani generazioni, pregiudizi e stravolgimenti continueranno a circolare indisturbati nell’etere.