Nei giorni scorsi, la stampa e i network internazionali hanno riportato in poche righe i risultati delle elezioni amministrative in Macedonia annunciando la vittoria dei “nazionalisti” e le dimissioni del primo ministro “socialista” Zaev. Dimissioni furbescamente non ancora confermate nella sede istituzionale del parlamento.
I cittadini ticinesi di origine migrante, tra i quali alcune migliaia provengono dalla Macedonia, sanno bene che i media locali, pur attenti ai temi dell’immigrazione, ben raramente si occupano dei loro Paesi. Poco importa se per mancanza di interesse o per mancanza di rispetto. Quando un Paese viene a lungo ignorato e non se ne conoscono a sufficienza le caratteristiche, si ha la tendenza ad applicare nell’analisi le categorie che sono state create per la propria realtà ma che non forniscono necessariamente dappertutto risultati conoscitivi attendibili.
Destra e sinistra, conflitti etnici, democrazia sono concetti che non possono essere usati nello stesso modo senza mediazioni culturali in tutte le situazioni del mondo.
Quando lo si fa, si cade in una sorta di paternalismo per cui ci si sente subito autorizzati a fare paragoni impropri, a formulare giudizi dall’alto e a spargere consigli. Tutto questo senza saper tenere conto dei percorsi diversi ai quali ogni Paese soggiace.
La Macedonia sta ancora vivendo un periodo di transizione a seguito della dissoluzione della Federazione jugoslava. La corruzione e gli abusi di potere non sono stati eliminati, in compenso le disuguaglianze sociali sono viepiù aumentate. La vecchia classe dirigente per non perdere il potere si è subito convertita nominalmente alla socialdemocrazia ma non ha saputo rinnovare le persone e far pulizia al proprio interno. Chiamare “socialista” il primo ministro sconfitto è segno di non saper leggere le realtà che si sono andate creando negli ultimi decenni nell’Est europeo. Quando i politici alla Zaev, riciclati dal vecchio regime, hanno ripreso in mano il potere, si sono dimostrati incapaci di affrontare le nuove realtà e di intraprendere una modernizzazione articolata del Paese. Non sono stato in grado di creare nuovi posti di lavoro e dunque di frenare l’emigrazione. Non hanno neppure saputo difendere gli interessi nazionali nei riguardi di un’Europa attenta solo ai dati economici. Di difendere la propria identità culturale e territoriale di fronte ai Paesi vicini, soprattutto di fronte alla Grecia e alla Bulgaria che appoggiandosi su narrazioni mitologiche hanno cercato di falsificare la storia dalla Macedonia e di impedirne con il proprio nome e la propria lingua l’accesso alle organizzazioni internazionali.
C’è dunque da meravigliarsi che l’elettorato macedone abbia in grande maggioranza bocciato la cattiva amministrazione sedicente socialista? Non è accettabile chiamare con malcelato disprezzo “nazionalista” la controparte che in questi ultimi anni si è trovata sola ad opporsi a quello che può essere chiamato un vero e proprio genocidio culturale. Così come usare questo termine quasi a lasciare intendere che, dopo la Polonia e l’Ungheria, anche la Macedonia stia avviandosi verso la politica reazionaria e sovranista.
In Macedonia, contrariamente a quanto capita altrove, non in piccola misura persino in Ticino, nessuno sta gridando “prima i nostri” e praticando discriminazioni xenofobe. Casomai, la maggioranza dei macedoni, delusa dai sedicenti socialisti, chiede, parimenti allo sviluppo economico e alla giustizia sociale, dignità e rispetto per la propria identità storica e culturale.