A settembre il processo agli ’ndranghetisti coinvolti nel fatto di sangue che nel 1975 ha visto come autore pure il ticinese Libero Ballinari
Il giudice delle udienze preliminari del Tribunale di Milano Angela Minerva ha rinviato a giudizio Giuseppe Morabito, Demetrio Latella, Giuseppe Calabrò e Antonio Talia, accusati di concorso in sequestro di persona e omicidio volontario aggravato dalla crudeltà. Quello di Cristina Mazzotti, la 18enne studentessa milanese rapita il 1° luglio 1975, a pochi metri dalla casa di Eupilio, sopra Erba, e uccisa dai carcerieri tra i quali il ticinese Libero Ballinari: la prima donna a essere rapita dall'Anonima sequestri calabrese nel Nord Italia.
Il processo si aprirà il prossimo 25 settembre davanti ai giudici della Corte d'Assise di Como. La gup milanese ha accolto la richiesta di rinvio a giudizio del pm Stefano Civardi, della Direzione distrettuale antimafia di Milano, che rappresenterà l'accusa nel processo che sarà celebrato in Tribunale a Como. Il corpo della giovane studentessa era stato trovato la sera del 1° settembre 1975 nella discarica di Galliate, in provincia di Novara, a seguito della confessione di Libero Ballinari, contrabbandiere ticinese, uno dei carcerieri della 18enne, che in una banca di Ponte Tresa aveva depositato 56 milioni di lire. Soldi provenienti dal riscatto di un miliardo e 50 milioni di lire pagato da Helios Mazzotti per la liberazione della figlia. Ballinari, messo alle strette dal delegato di polizia di Lugano Gualtiero Medici, aveva raccontato che il corpo di Cristina era stato sepolto nella discarica a Galliate sotto una carrozzina. Un racconto supportato da un disegno della discarica di Galliate. Libero Ballinari e il gestore della banca di Ponte Tresa sono stati condannati a Lugano. Gli imputati del processo bis sono accusati di essere gli autori materiali, dietro un compenso di 50 milioni di lire, del rapimento di Cristina Mazzotti. Fra loro il boss di ’ndrangheta Giuseppe Morabito, 79enne, residente a Tradate, che assieme ad altri capi clan nel frattempo deceduti è accusato anche di essere l'organizzatore del rapimento della studentessa.
Gli attuali imputati sono legati alla criminalità organizzata – radicata nel Comasco e nel Varesotto negli anni 80 – che ha messo a segno numerosi sequestri di persona fra cui quello del giovanissimo ticinese Renzo Nespoli, rapito il 15 gennaio 1977 nel maneggio di Grandate, alla periferia di Como. Gli autori del sequestro, tre calabresi legati alla ’ndrangheta, identificati sono stati condannati a complessivi 90 anni di carcere. Al nuovo processo si è arrivati grazie a un’impronta digitale sull'automobile nella quale si trovava Cristina Mazzotti – assieme a un amico e a un’amica stava tornando a casa dopo aver festeggiato il compleanno in un bar di Erba – che consentì nel 2007 di risalire a Latella, che ha sempre ammesso le proprie responsabilità chiamando in causa Calabrò e Talia.
La posizione del terzetto nel giugno 2012 era stata archiviata dai giudici di Milano nel presupposto giuridico che, oltre al prescritto sequestro di persona, anche l’omicidio volontario aggravato sarebbe stato prescritto. Le indagini sul rapimento della studentessa sono state riaperte all’inizio dello scorso anno, sulla base di una sentenza delle sezioni riunite della Corte di Cassazione che ha stabilito che non c’è prescrizione per l’omicidio volontario aggravato. “La ricerca della verità e della giustizia non si prescrivono mai in un Paese civile”, ha commentato all'Agi l'avvocato Fabio Repici che, assieme al collega Ettore Zanoni, assiste Vittorio e Marina Mazzotti, i fratelli di Cristina che si sono costituiti parte civile. L'inchiesta è stata riavviata nel 2020 dalla Dda milanese grazie al libro “I soldi della P2”, scritto dall'avvocato Repici assieme ad Antonella Beccaria e il giudice Mario Vaudano.