La storica band catanese, prodotta dal guru della musica indipendente Steve Albini è protagonista del documentario in proiezione giovedì al Cinema Rialto
C’è stato un periodo, nei primi anni Novanta, in cui Catania fu avvolta da un magma incandescente che non era quello dell’Etna che nel 1669 la devastò. Un materiale pulsante fatto, invece, dei suoni sporchi e viscerali che in quegli anni stavano imponendo un modo diverso di fare musica, lontano dalle paillette e dal suono sintetico del decennio precedente. Le parole che giravano di bocca in bocca erano ‘indipendente’ e ‘alternativo’: suonare per essere sé stessi, svincolati dai diktat da parte delle major discografiche, creandosi la propria etichetta e gestendo da sé l’organizzazione dei concerti. Ciò da cui, incidentalmente, nascerà poi la scena grunge di Seattle, ma questa è un’altra storia.
Seattle finì però per avere qualcosa di importante in comunque con la città etnea grazie agli Uzeda, la band che nel 1993 fece “scomodare” fino ai piedi del vulcano il guru della musica alternativa, recentemente scomparso, Steve Albini, produttore dell’ultimo album dei Nirvana, “In Utero”: una telefonata da una cabina a gettoni, poi l’invio di una musicassetta e l’allora chitarrista degli Shellac vola a Catania per produrre l’album ‘Waters’.
Una collaborazione che proietta gli Uzeda sui palchi di mezzo mondo, fino alla Bbc con la partecipazione alle storiche Peel Session organizzate dal produttore radiofonico John Peel, un onore che la band etnea condivide in Italia soltanto con altri due gruppi, la Pfm e i NorthPole. Un successo che, sebbene non portò il gruppo all’attenzione del grande pubblico, lo rese un punto di riferimento nella scena internazionale della musica alternativa: il tutto senza modificarne il modo di fare e concepire la musica, all’insegna dell’indipendenza e del Do It Yourself, il fare tutto da sé.
‘Uzeda - Do It Yourself’ è anche il titolo del documentario scritto e diretto dalla regista Maria Arena oggetto della proiezione, in prima internazionale, organizzata da Spazio Volta al Cinema Rialto di Locarno giovedì 27 febbraio alle 20.30: un lavoro che della band catanese ricostruisce non solo la storia artistica, con interviste ai componenti e alle figure a loro vicine, incluso lo stesso Albini, ma anche il nocciolo duro di valori alla base.
«Mi sono innamorata della storia degli Uzeda, – spiega la regista – una band che è riuscita a sopravvivere per trent’anni, a fare la musica che voleva e che ha un pubblico che tuttora va ai concerti e li vive come un’esperienza, uno scambio: un successo che è interessante non ridurre solo all’aspetto economico. Quello che oggi si chiama ‘indie’ non è la musica indipendente di cui si parla nel film, che è un valore oltre che un genere musicale, un po’ sparito, una musica che, soprattutto nella scena punk e rock, appartiene a una comunità: ci sono delle relazioni umane che fanno sì che questo tipo di musica vada avanti con il passaparola, con etichette indipendenti. Il valore principale in questo senso non è quello economico, ma è la musica in sé, intesa come arte, una grande differenza rispetto a come viene pubblicizzata oggi». Uno scorcio biografico che, a distanza di trent’anni, fa presa anche su un pubblico diverso da quello dei fan, «persone che – prosegue l’autrice – pur non conoscendo la band dopo aver visto il film dicono che ci vorrebbero più storie di questo tipo: c’è stata una giovane, in particolare, che non conosceva gli Uzeda ma che lo ha definito ‘motivazionale’. Perché è una storia di libertà».
Ma cosa vuol dire oggi, per gli Uzeda, questa libertà, essere indipendenti?
«Partiamo dal fatto che siamo esseri umani con una grande passione per la musica e il suono, perché non c’è musica senza suono. Essere indipendenti non è né un genere né una corrente, anche se spesso questo termine a livello mediatico o commerciale viene abusato, finendo per annacquarsi e tutti diventano ‘indipendenti’. Per noi, significa dare un valore alla propria passione, che non è da intendere in senso economico, perché essa, la passione, non ha prezzo – dice il chitarrista della band Agostino Tilotta – ascoltare un suono dentro di sé, sentire pulsare la voglia di dargli una forma sonora e comunicarlo direttamente non ha necessità di un’approvazione da parte di nessuno, è un’urgenza che parla direttamente con il linguaggio del Tempo, non si aspetta nulla e non ha paura. Una creazione musicale è come un’eruzione, si manifesta partendo dal centro della terra e non si pone il problema di essere accettata o meno: magari potrà essere devastante, ma deve manifestarsi in sé e per sé per creare un cambiamento. La prima cosa che abbiamo fatto è stata liberare la musica dalla necessità economica: per noi registrare un album (sempre e solo in analogico) risponde alla necessità di lasciare una testimonianza di un momento della vita e della storia musicale di un gruppo composto da 4 persone, ed è solo quello. La nostra materia non è il contenitore della musica, ma il suo contenuto: abbiamo bisogno di esprimere la vita attraverso il suono, secondo quello che noi viviamo, come persone normali perché tali siamo. È un’esperienza umana, e come tale la regaliamo, alternativa, e mai imposta a nessuno».
Il film segue la band on the road per l’Europa, fino in Francia per le registrazioni dell’EP ‘4’ su chiamata di Steve Albini che lì si trovava per lavoro. Ma la conclusione dei viaggi coincide sempre con l’inizio, quella Catania in cui gli Uzeda hanno continuato ad abitare e di cui il documentario mostra rapidi scorci, dal Fortino alla villa Bellini, dagli storici locali del centro storico fin sulla sciara vulcanica dell’Etna. Una città che, negli anni in cui gli Uzeda incrociano le proprie strade con Albini, vive un riscatto rispetto alla sinistra fama legata alla criminalità e diviene un palcoscenico vivo per il mondo della musica alternativa italiano.
Era il 1995 l’anno in cui allo stadio Cibali di Catania arrivarono i R.E.M per un concerto in data unica in Sicilia, supportati da una giovane band inglese che avrebbe avuto un successo planetario: i Radiohead. E sempre in quell’anno 1995, arrivarono i Fugazi, la band statunitense icona di quel “Do It Yourself” espresso insieme agli Uzeda su un palco al Porto di Catania, gratuitamente davanti a circa 9’000 persone venute da ogni parte del globo. E poi tanti altri, dai Sonic Youth agli Skunk Anansie agli allora esordienti Coldplay. Catania, la città specchio e ispirazione dove gli Uzeda vivono, condividendo con essa gli amici e i legami con il mondo
«Oltre ai cambiamenti sociali e politici di quegli anni, alla spinta giovanile che era viva non solo a Catania ma in tante altre città dell’isola, per noi a fare da detonatore è stato forse proprio il fatto di essere, in quanto isolani, un po’ lontani da tutto. E insieme a questo, ancora più potente era la voglia, a tutti i costi, di esprimere quello che provavamo, definendolo in un suono preciso che fosse il nostro sigillo, l’immagine sonica di Uzeda, senza che nulla fosse premeditato: ciò che oggi non accade in una società in cui si programma tutto, in cui si cerca di prevedere tutto, configgendo fortissimamente con la Fantasia, l’Immaginazione, la Genialità dell’essere umano, di per sé creatura straordinaria e imprevedibile. Il risultato alla fine è un piattume totale, apatia, silenzio e isolamento: la gente non si incontra più!».