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Mati Diop e la dialettica della restituzione

La regista franco-senegalese, Orso d'oro a Berlino, in sala con il documentario ‘Dahomey’ sulla restituzione di opere d'arte dalla Francia al Benin

21 dicembre 2024
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I musei occidentali custodiscono migliaia di opere sottratte ai Paesi d’origine durante l’epoca coloniale. Qual è la cosa giusta da fare, con queste opere? Da un lato, le istituzioni europee e americane hanno storicamente legittimato il proprio ruolo di “custodi universali” appellandosi alla capacità di preservare e valorizzare questi manufatti grazie a istituzioni ben sviluppate e finanziate. Dall’altro, i Paesi che hanno subito queste spoliazioni rivendicano un diritto che non riguarda solo la proprietà materiale, ma il valore che queste opere hanno nel definire la propria identità culturale, superando le ferite del periodo coloniale.

Uno dei capitoli importanti di questo dibattito è avvenuto nel novembre del 2017, quando il presidente francese Emmanuel Macron, in un discorso all’Università di Ouagadougou in Burkina Faso, ha aperto alla possibilità di restituire il patrimonio africano conservato nei musei francesi. Quattro anni dopo, ventisei tesori reali del Regno del Dahomey sono stati restituiti all’attuale Repubblica del Benin, opere sottratte nel 1892 durante la conquista francese di Abomey, capitale di un regno che per tre secoli aveva rappresentato una delle più significative entità statali dell’Africa occidentale. Quanto restituito in quell’occasione –statue regali, troni cerimoniali e manufatti rituali – è solo una minima parte delle oltre settemila opere trafugate durante la campagna militare del generale francese Alfred Dodds, sufficienti comunque a ridefinire i rapporti tra ex colonizzatori ed ex colonizzati. Anche perché le opere restituite non sono state scelte a caso: quei manufatti testimoniano la complessità storica del Regno del Dahomey, rappresentando da un lato la sua sofisticata organizzazione statuale e la sua ricchezza culturale, dall’altro ne testimoniano anche le contraddizioni, come emerge dai troni decorati con figure che rimandano al coinvolgimento del regno nella tratta atlantica degli schiavi.

Una complessità che ritroviamo nel documentario ‘Dahomey’ con cui la regista franco-senegalese Mati Diop ha vinto l’Orso d’oro alla 74ª Berlinale, in programmazione all’Otello di Ascona o in streaming sulla piattaforma Mubi. Il film non si limita infatti a documentare il viaggio di ritorno delle opere dal Musée du quai Branly alla loro terra d’origine, ma affronta la densità simbolica dell’evento condensando in poco più di un’ora una molteplicità di registri e livelli di lettura.

La voce dell’Africa

Possiamo distinguere tre momenti, tre fasi. La prima, ambientata negli spazi asettici e labirintici del Musée du Quai Branly, mostra le rigorose procedure di imballaggio e preparazione delle opere, una sorta di rituale contemporaneo, quasi un’antica cerimonia. Poi, una delle scelte più interessanti di Diop: l’introduzione di una voce narrante, la voce in lingua fon di una delle opere imballate e pronte ad andare, o tornare, in Benin. Nell’ultima fase del film Diop, con un altro scarto linguistico, ci porta all’Università di Abomey-Calavi, dove un gruppo di giovani discute della restituzione e del suo significato. Il passaggio tra i vari capitoli è ben sottolineato dalla fotografia di Joséphine Drouin Viallard: se nelle sequenze parigine predomina una luce artificiale e asettica, che sottolinea l’estraniamento delle opere dal loro contesto originario, il ritorno in Benin è segnato da tonalità più calde e avvolgenti.

La parte più interessante, anche se cinematograficamente più tradizionale, è il dibattito nell’aula magna dell’Università di Abomey-Calavi. C’è chi legge la restituzione come un atto di riparazione storica necessario ma insufficiente, chi invece privilegia la dimensione simbolica dell’evento, chi considera discutibile pensare che una popolazione che vive alla giornata possa visitare musei, chi non accetta la stessa idea, occidentale, di un museo.

La domanda di fondo, sottolineata anche dalla voce narrante della statua di re Ghezo, riguarda proprio l’idea di ritorno: come può un’opera d’arte “tornare” in un contesto radicalmente trasformato da oltre un secolo di storia? La restituzione non può essere pensata come semplice “ritorno al passato”, ma deve necessariamente prevedere una interpretazione del patrimonio culturale.

Un film politico

‘Dahomey’ è un’opera che va oltre la mera documentazione di un evento. La particolare stratificazione del film – in cui l’oggettività documentaria si intreccia con una sorta di realismo magico – permette a Mati Diop di costruire una narrazione che pone al centro una domanda apparentemente semplice: come può una società riappropriarsi della propria memoria culturale?

Il “ritorno a casa” delle opere non è la conclusione di una storia, ma al contrario il punto di partenza di un processo più complesso del semplice trasporto di statue e sculture. Un processo che Mati Diop ci mostra da una prospettiva africana: da questo punto di vista ‘Dahomey’ è un’opera profondamente politica per la sua capacità di far emergere la complessità di questioni che investono l’identità culturale, la memoria collettiva e le modalità della loro rappresentazione.