La solida esperienza come documentarista a sfondo sociale di Andrea Segre fa il suo in questo film, ora nelle sale, ben lontano dall'agiografia
È sorprendente leggere nei titoli di testa del film ‘Berlinguer, la grande ambizione’, la co-produzione affidata alla Bulgarian Film Commission. Possiamo scorgervi delle scuse indirette, se non proprio un’ammissione di colpa, per quell’episodio rimasto misterioso per decenni, rievocato proprio nella prima sequenza della pellicola.
Era l’ottobre del 1973, Enrico Berlinguer stava vivendo il suo autunno caldissimo: era appena apparso il macellaio Pinochet, il quale spazzò via a suon di desaparecidos l’esperienza della via cilena al socialismo che Salvador Allende cercava di tracciare (col fiatone della CIA sul collo). Il segretario del più importante Partito comunista dell’Europa occidentale lanciò allora l’idea del “compromesso storico”. Temendo che l’Italia potesse ri/vivere l’esplosione di violenza della guerra civile che segnò drammaticamente il Bel Paese dall’8 settembre 1943 al 25 aprile ’45, si disse pronto a collaborare con la Democrazia Cristiana per riaggiustare quella “democrazia zoppa e bloccata” che, appena subìto lo choc di Piazza Fontana (12 dicembre 1969, 17 morti e quasi cento feriti), scoprì pure il tentativo di golpe del fascista Junio Valerio. Situazione tesissima sul fronte interno italiano, con l’avvio della “strategia della tensione” e, dietro l’angolo, gli anni di piombo; mentre sul piano internazionale Berlinguer entrò in contrasto con i soloni moscoviti lanciando un’altra idea molto ambiziosa: quell’Eurocomunismo secondo il quale si sarebbe dovuto arrivare al socialismo senza uscire dall’ambito democratico, come invece avveniva in tutti i Paesi del Patto di Varsavia. In visita in Bulgaria, uno degli stati più ortodossi e rispettoso dell’egemonia dell’URSS, Berlinguer ha un colloquio acceso quanto infruttuoso col segretario Todor Živkov; sta dirigendosi verso l’aeroporto di Sofia, quando l’auto su cui viaggia con i suoi accompagnatori viene investita da un camion militare. L’incidente provoca la morte dell’interprete e il ferimento grave di due dirigenti del PC bulgaro. Lui se la cava con un braccio rotto e solo due decenni dopo, nel 1993, rivelerà i suoi fondati dubbi su quel “falso incidente”, orchestrato ad arte dal KGB e dai servizi segreti bulgari per sopprimere l’alleato italiano ormai divenuto scomodo a seguito dei duri screzi ideologici con Brežnev.
Il regista Andrea Segre (veneto, classe 1976), laureato al DAMS di Bologna e oggi docente di Sociologia della Comunicazione presso lo stesso ateneo felsineo, ha alle spalle una solida quanto importante esperienza quale documentarista, interessato soprattutto a tematiche socio/politiche, con un occhio di riguardo per il fenomeno immigrazione sin dal suo esordio nel 1998 con ‘Lo sterminio dei popoli zingari’. Documenta (‘Il sangue verde’, 2010) le manifestazioni di protesta messe in atto dagli immigrati africani impiegati nella raccolta degli agrumi nei campi di Rosarno, dopo il ferimento di alcuni connazionali a opera di gente del posto. Una storia di sfruttamento, violenze, degrado e caporalato che attirò sulla Calabria i riflettori dei media nazionali e si concluse con l’allontanamento forzato degli immigrati africani deciso dal governo Berlusconi. Conferma poi il suo impegno di cineasta militante con ‘La mal’ombra’ (2007), che filma le battaglie dei cittadini di San Pietro, un piccolo paese del Vicentino, contro la costruzione di una delle zincherie più grandi – e inquinanti!– d’Italia.
Il Veneto e i suoi abitanti sono protagonisti anche nel suo esordio nel cinema di finzione: ‘Io sono Li’. Nome completo Shun Li, è una donna segnata dalla vita che fa la barista in un’osteria di Chioggia. Incontra Bepi, “un pescatore slavo da trent’anni a bagno nella Laguna. Poeta e gentiluomo, Bepi è profondamente commosso dalla sensibilità della donna di cui avverte lo struggimento per quella sua terra lontana e il figlio rimasto in Cina. La loro intesa non sfugge alle malelingue della provincia e delle rispettive comunità” (M. Gandolfi).
L’esperienza di documentarista spicca nel biopic – lontano dall’agiografia – dedicato al politico sardo nel centenario della sua nascita: Segre, con la complicità del sempre più performante Elio Germano nel ruolo del titolo, ci mostra un marito e padre affettuoso, capace di ridere e ironizzare soprattutto su sé stesso, nonostante qualche senso di colpa per il tempo che deve consacrare alla sua figura pubblica, rubandolo alla famiglia quand’è impegnato ad ascoltare e riflettere sulle condizioni/rivendicazioni della classe operaia, come le denunce dei lavoratori del Petrolchimico di Ravenna riguardo a un possibile disastro ambientale. Insiste sull’idea di eurocomunismo, scontrandosi duramente con l’avvocato Agnelli (il quale vi scorgeva “il Male Assoluto”).
Detto di Elio Germano, miglior attore alla recentissima Festa del Cinema di Roma, va sottolineata la cura di Segre e dei responsabili del casting per rendere attrici e attori credibili nei panni dei tanti protagonisti di quella stagione politica: i comunisti Umberto Terracini (Stefano Abbati), Pietro Ingrao (Francesco Acquaroli), Nilde Iotti (Fabrizia Sacchi) e Armando Cossutta, fedelissimo a Mosca (Fabio Bussotti); tra i democristiani ecco Aldo Moro (plauso a Roberto Citran), mentre la luciferina maschera di Giulio Andreotti (Paolo Pierobon) ci è francamente apparsa un po’ troppo sopra le righe.