Al Teatro alla Scala in scena fino al 10 novembre la nuova produzione (la più attesa della stagione) di ‘Das Rheingold’, primo tassello del Ring
La produzione più attesa della stagione, ovvero l’allestimento del nuovo Ring al Teatro alla Scala, a dieci anni dal precedente (Barenboim-Cassiers), è ora in scena, dopo qualche tormento, con il primo tassello della Tetralogia, ‘Das Rheingold’. È stato infatti un fulmine a ciel sereno il forfait del direttore d’orchestra Christian Thielemann a pochi giorni dall’inizio delle prove, ufficialmente per una non procrastinabile operazione a un tendine; ma, avendo egli espresso preoccupazione per il futuro della Scala, si è giunti alla conclusione che il motivo fosse il passaggio dalla sovrintendenza di Dominique Meyer, con cui Thielemann ha un lungo rapporto di stima, a quella di Fortunato Ortombina (già sovrintendente alla Fenice di Venezia), meno gradito al celebre direttore tedesco.
A sostituire Thielemann è stata chiamata la direttrice d’orchestra australiana Simone Young, prima donna a dirigere il ciclo completo del ‘Ring’ al Festival di Bayreuth, dove ha iniziato il suo percorso wagneriano come assistente di Barenboim alla fine degli anni Ottanta ed è ora considerata una specialista di Wagner. Il podio però non è tutto suo: nelle repliche finali è sostituita da Alexander Soddy, già suo assistente.
Non si era ancora aperto il sipario sulla ‘prima’ del Rheingold che già si mormorava della nuova produzione, affidata al regista David Mc Vicar, che di solito fa cose belle, sontuose, non rivoluzionarie ma convincenti. E che di Ring ne ha già allestito uno diciassette anni fa a Strasburgo, per il quale è stato premiato con il titolo di Sir e il Grand Prix de la Musique et du Syndicat de la Critique. Dall’incontro con il pubblico che ha preceduto la prima alla Scala, incontro in cui il regista ha ribadito che il Ring è una grande rappresentazione del mondo, l’importanza del mito per l’umanità che dal mito stesso si è allontanata, la necessità di tirar dentro i temi che angosciano il nostro presente, come il cambiamento climatico, e chissà cosa ci sarà da dire quando l’operazione si concluderà nel 2026, da tutto ciò si è capito che non si andava verso letture stravolgenti, e nemmeno travolgenti.
La critica usa in varia maniera il termine ‘fantasy’ per descrivere l’allestimento di McVicar, che firma anche le scene insieme a Hannah Postlethwaite, ma il dato curioso e interessante è che per la critica italiana la parola ha un’accezione negativa, (fantasy uguale kitsch) mentre la critica anglosassone ne fa uso positivo o neutro: fantasy può essere bello e per gli americani addirittura entusiasmante. Si apre il sipario su scene senza tempo all’insegna del gigantismo: ci sono tre manone sul fondo del Reno a sorreggere le tre ondine, successivamente domina una scala vagamente escheriana che indica l’ascesa degli dei alla loro dimora, i giganti stessi appaiono sui classici trampoli con il loro faccione mostruoso, c’è un enorme teschio dorato nel sottoterra dei Nibelunghi, e poi le divinità, tutte in abiti femminili tendenti al barocco, con esiti più o meno riusciti. Grande importanza è data ai movimenti coreografici (Gareth Mole) e alle luci (David Finn), con la presenza di un ballerino nel ruolo personificato dell’oro, e di altri mimi e servi di scena.
È una fiaba che si snoda davanti ai nostri occhi, con buoni e cattivi, senza tanti perché. Non è il caso di demonizzare il fantasy, ma a noi che ci sentiamo figli, nipoti e pronipoti di Wieland Wagner, di Luca Ronconi, di Patrice Chéreau e – perché no – di Frank Castorf, manca certamente qualcosa: una visione peculiare, un’idea-chiave, una lettura vera e propria che proietti la saga wagneriana nel nostro presente. Il momento più riuscito è nel finale, che inquadra gli dei sulla scala che porta al Walhalla, mentre il ballerino-oro, cui l’oro è stato strappato, entra in scena trascinandosi, coperto di sangue, a gettare un barlume di significato su tutta la vicenda: la lotta per il potere (dell’anello) genera lacrime e sangue.
Punto di forza dello spettacolo è il cast in cui ritroviamo nomi eccellenti del pianeta wagneriano: c’è il sempre suggestivo Michael Volle (il suo umanissimo Wotan ‘parla’ molto ed è di un’efficacia straordinaria), c’è l’eccellente Olafur Sigurdarson (grande Alberich con debolezze e nefandezze), c’è Okka von der Damerau (nel ruolo di Fricka, degna consorte di tanto Wotan), c’è Christa Mayer (un’Erda cesellata, quasi più lirica che drammatica). Il personaggio meno convincente è Loge (Norbert Ernst) in abito da Infanta di Spagna, con tante braccia mobili come una dea indiana, troppo statico per trasmettere il guizzare e lo scoppiettare delle fiammelle che lo caratterizzano.
E naturalmente, a dirigere l’orchestra della Scala, si attendeva la prova di Simone Young (già sentita alla Scala con un applaudito ‘Peter Grimes’) che ha mostrato, come del resto era prevedibile, di padroneggiare la partitura con maestria e lunga esperienza, ma da cui avremmo voluto più slancio e personalità: ecco invece una bellissima routine da cui emergono a tratti guizzi di felicità (nella musica di transizione, ad esempio, o nella già menzionata scena finale). Nelle ultime recite sentiremo Alexander Soddy, dal quale vorremmo lasciarci sorprendere. ‘Das Rheingold’ è in scena fino al 10 novembre.