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Quando la guerra diventa un'abitudine

Al Ffdul ‘The Black Garden’ (in concorso) racconta tre generazioni di armeni del Nagorno Karabakh, abituati al confitto per necessità

15 ottobre 2024
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Spesso ci si dimentica che l’essere umano è un mammifero, troppo impegnati a discutere sulle distinzioni che ci rendono, erroneamente, superiori agli animali in quanto specie. Bisognerebbe differenziare quello che conosciamo da quello che abbiamo assimilato in quanto, se parliamo dell’etica e del senso di responsabilità, siamo ancora ben lontani dal poterci definire liberi dai comportamenti primitivi e bestiali.

A supporto di quest’opinione ‘Sr’, di Lea Hartlaub (mercoledì 16 ottobre alle 20.45 al cinema Iride), che narra in voce fuori campo avvenimenti umani che hanno come leitmotiv la giraffa, viaggiando attraverso gli archivi e le immagini di paesi sparsi in tutto il mondo. Un documentario caleidoscopico interessante nel suo voler essere contemplativo, ma eccessivamente televisivo e soprattutto prolisso nell’esposizione e nella struttura filmica; talvolta brillano frammenti di quotidianità anche piacevoli e profondi nella loro implicità, ma non bastano a tenere in vita l’interesse dello spettatore, assoggettato a una visione dispersiva e poco convincente.

Intanto, molto lontano, laggiù in quell’area dimenticata tra il Mar Nero e il Mar Caspio, gli animali non esistono, eccezione fatta per qualche uccello che riesce a sorvolare le bombe al fosforo. ‘The Black Garden’, di Alexis Pazoumian, ci costringe a distogliere un attimo lo sguardo e spostarlo verso l’Armenia, in particolare la regione a sud del Nagorno Karabakh, ora Azerbaijan, teatro di una guerra che si protrae da generazioni, dove i cani e i gatti sono sostituiti dalle bombe a mano e i kalašnikov. Abcasia, Ossezia del sud, in Georgia, l’ormai ex Repubblica dell’Artsakh – territorio dove si svolge il film – e persino l’Armenia stessa: questa la lista degli stati a riconoscimento limitato di quel triangolo delle Bermuda di esseri umani, quel giardino nero dove una lunga serie di guerre si è svolta fino a oggi. Avo e Samvel sono due bambini del Nagorno Karabakh, costantemente bombardati da una propaganda bellica che non riescono veramente a comprendere, persino a scuola, dove imparano inni patriottici, a utilizzare fucili e a prendersi cura di loro, come se fossero fedeli animali da compagnia. Altrove, Erik, che ha perso una gamba nell’esplosione di una granata, attende solo il ritorno della sua richiamata alle armi, anche perché a una parte di lui manca il compagno carrarmato, con cui ha passato due anni a difendere i confini dagli attacchi azeri. Un giovane pieno di vita, artigiano che lavora microsculture e cantante in un gruppo popolare, ma quel dolore fantasma gli ricorda costantemente il suo destino: tenersi sempre pronto per combattere e morire nell’eterno conflitto.

‘The Black Garden’ (mercoledì 16 ottobre alle 18 al cinema Iride) è un diario intergenerazionale che riesce a esse drammatico senza essere tragico; ripercorre la lunga serie di eventi scatenanti l’esodo della popolazione presente nella regione del Nagorno Karabakh, solo un anno fa, ma soprattutto che hanno progressivamente normalizzato il conflitto in tutti gli abitanti. Il lato tecnico impeccabile e la capacità di catturare l’apatia e la rassegnazione dei personaggi, si agganciano al senso di impotenza veicolato dal messaggio, portando a chiederci a cosa servono la Nato, l’Onu, l’Oms e la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, quando i diritti umani vengono calpestati impunemente, e a quale scopo essere uniti, se non si impiega quella forza per difendere chi viene oppresso.

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