È freddo il ritorno di Almodóvar, leggero e frizzante Lelouch. Quella di Corbet è arte e se Delpero non convince, i fratelli Boukhema invece sì
A giudicare dalle prenotazioni e dalla spasmodica ricerca di biglietti, ‘The room next door’ di Pedro Almodóvar è stato il film più atteso in questa Mostra. Ogni ingresso era già sparito due giorni prima della manifestazione, mentre quelli per ‘Wolfs’ con Clooney e Pitt erano disponibili fino all’inizio del film. Girava voce che fosse un addio del grande maestro spagnolo, che ritornava sul Lido dopo ‘Madres paralelas’ del 2021, con il premio a Penélope Cruz come miglior attrice. Di sicuro è il suo primo film in inglese e per questo si è affidato a un cast con i fiocchi, mettendo insieme Tilda Swinton, Julianne Moore e John Turturro, per un film tratto da un romanzo del 2020, ‘What Are You Going Through’ di Sigrid Nunez, di cui nella sceneggiatura Almodóvar ha tolto l’umorismo che lo identificava nel dire la dolorosa vicenda che mette in campo. Il risultato è un film notevole girato in un persistente e monotono la minore, che toglie alla potenza della tragedia una possibilità di respiro; e questa, portando sullo schermo una donna divorata dal cancro che vuole porre fine alla sua vita, è una scelta grave. Viene infatti a mancare l’emozione, tutto resta freddo, eppure il regista poteva fare qualcosa di diverso dal far recitare, magistralmente ma senza calore, i suoi protagonisti.
Siamo a New York quando Ingrid (Julianne Moore), alla presentazione del suo ultimo romanzo, scopre che Martha (Tilda Swinton), sua cara amica da giovane, è malata terminale di cancro. Le due si erano perse di vista perché Martha era diventata una reporter di guerra, sempre in viaggio; lo stesso, senza incontrarsi, avevano condiviso l’amore di un uomo (John Turturro) che ora vede ancora Ingrid. La scrittrice va a trovare l’amica che, in breve, le chiede di accompagnarla nell’ultimo viaggio. Andranno in vacanza insieme, si avvicineranno e un giorno… Almodóvar poteva fare di più che una pacata illustrazione. Peccato.
Julianne Moore e Tilda Swinton in ‘The Room Next Door’
Su un tema simile, la perdita di memoria, per malattia, di Lino (un grande Kad Merad) anziano ma ancora giovanile avvocato, l’86enne Claude Lelouch ha costruito ‘Finalement’, splendida commedia musicale piena di emozioni e sorrisi, ricca di vita nonostante il dolore. Lelouch racconta con sincera adesione e malinconia il destino di quell’avvocato che a metà requisitoria si perde e scopre di essere malato. Lascerà la famiglia e comincerà a girare per la Francia senza una meta, incontrando persone amiche e meno, comprando una tromba e suonando dove capita, fino ad arrivare in una fattoria dove una donna (una brava Marianne Denicourt) soffre i tradimenti del marito. Con lei, che suona il pianoforte, Lino trova una musicale intesa di puri sentimenti. Scivolerà ad Avignone ad ascoltare un requiem, a vedere teatro e altro ancora, tutto mentre la moglie (una intensa Elsa Zylberstein), grande attrice, lo cerca innamorata. Per intervento di una pranoterapeuta, si trova dispiaciuto a trovare la memoria e a dover decidere che donna amare. Leggero e frizzante eppure intenso come un grande Champagne.
In Concorso ha molto colpito ‘The brutalist’ di Brady Corbet, un falso biopic su un architetto ebreo magiaro, László Tóth (un grandioso Adrien Brody), sfuggito ai campi di sterminio e impegnato a costruire negli Stati Uniti che l’hanno accolto un complesso da lui pensato come un ricordo del campo di Buchenwald. Questo film è un’opera grandiosa che dura oltre tre ore, in 70mm, e noi non l’abbiamo visto nella condizione ideale, ridotto com’era in uno schermo inadatto. Comunque ci ha fatto per un momento ripensare a ‘Megalopolis’ di Francis Ford Coppola, che era una saga di architetti, per quanto vecchio fosse l’impianto del film di Coppola e di quanto sia fortemente innovativo il film di Corbet. Il regista racconta la storia di un uomo visionario, collerico, capace di piegarsi agli eventi ma sempre con dignità, e quando questa dignità gli viene tolta violentemente, si ritira in un sé stesso che era il vivere in un campo di sterminio. E intorno a lui gira il greve capitalismo a stelle e strisce, incapace di comprendere altro al di fuori del proprio specchio deformato. Questo è un film d'arte audace. E se il nome del protagonista suona familiare è perché Lászlo Tóth era quel geologo australiano di origine ungherese che nel 1972 prese a martellate la Pietà di Michelangelo, ed è il modo in cui il film suggerisce che un creatore potente è sempre, in un certo senso, un distruttore. ‘The brutalist’ è anche un racconto su cosa significa essere ebrei in un mondo che si avvicina agli ebrei con estrema ambivalenza. In questi giorni una provocazione, ma se l’arte – e questo film lo è – non provoca, non è arte.
‘Leurs enfants après eux’ di Zoran e Ludovic Boukherma
Non convince, sempre in Concorso, lo scolastico ‘Vermiglio’, opera seconda di Maura Delpero, film ambientato in un borgo di montagna nel Nord Italia nel 1945. Mentre la Seconda guerra mondiale finisce, incontriamo la famiglia dell’ottuso e severo maestro, un gruppo in continua crescita (anche se la moglie è stanca di figliare) il cui destino cambia con l’arrivo di un parente fuggito dalla guerra, insieme a un commilitone che lo ha salvato. ‘Vermiglio’ è il lindo racconto di un piccolo mondo appena sfiorato dagli eventi esterni, con ragazzine che crescono e vecchi che brontolano, con un matrimonio che va male e col lavoro che manca, tanti temi sfiorati e mai approfonditi.
Più sanguigni, sempre in Concorso, sono i fratelli Zoran e Ludovic Boukherma che qui hanno portato ‘Leurs enfants après eux’, film ambientato negli anni 90 in una valle sperduta da qualche parte nell’est della Francia, col suo lago e i suoi altiforni ormai spenti. Un mondo decadente come la civiltà delle famiglie e dei giovani: se un tempo il lavoro univa tutta la popolazione, ora la mancanza di lavoro ha diviso il paese tra bianchi e magrebini e tra i bianchi, a pagare la disgregazione sociale, sono soprattutto le fasce più deboli, chi sbarca il lunario chi non ha futuro. Un film duro ma carico di poesia, forse un po’ immaturo, ma sincero nel suo dire. Degno del Concorso.