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Il Concorso canta con ‘Maria’ (Callas)

Abbiamo visto il film di Pablo Larraín con una stupenda Angelina Jolie, ma anche un omaggio a Kaurismäki e il documentario di denuncia di Errol Morris

Angelina Jolie
(Pablo Larraín )
29 agosto 2024
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Una frase, detta in conferenza stampa dalla presidente di giuria Isabelle Huppert, ridà luce all’idea di cinema che rischia di sfiorire in questo tempo di altri media: “Film è una parola singola che si riferisce a un mondo intero, quindi la mia speranza è che questa parola possa continuare a esistere il più a lungo possibile”. Ed è questa verità che esplode quando sul grande schermo passano film come il necessario documentario ‘Separated’ di Errol Morris e come ‘Maria’ di Pablo Larraín che ha aperto la competizione ufficiale qui al Lido.

Casta diva

Una stupenda Angelina Jolie ricorda l’angoscia degli ultimi giorni della Divina Callas su questo ingrato mondo: Pablo Larraín con questo film completa una trilogia dedicata al femminile e, curioso, tutta presentata, nel corso degli anni, qui alla Mostra. Ricordiamo ‘Jackie’ nel 2016 con Natalie Portman come Jacqueline Kennedy, e ‘Spencer’ nel 2021 sulla crisi esistenziale della Principessa Diana durante il Natale del 1991, con Kristen Stewart a interpretare Diana e Jack Farthing Carlo.

Qui il tema si è allargato con un personaggio forte che si confronta con la vera protagonista del film: la musica. E il regista ne è pienamente convinto, lasciando a importanti comprimari il contorno necessario, così apprezziamo l’impegno di Pierfrancesco Favino come il servitore/maggiordomo di Maria e di Alba Rohrwacher come serva/cuoca, nella stessa casa parigina dove la Diva vive i suoi ultimi giorni tra gran quantità di pastiglie, qualche bicchiere in più, sogni, incubi, ricordi e, appunto, la musica.

È la sua voce che incanta i nazisti nell’Atene occupata della sua adolescenza, dove essere giovani donne era essere prede. Ed è ancora la sua voce, che la tradisce negli ultimi giorni, ad amareggiarla di fronte a un critico del Figaro che ruba una sua prova di canto per offenderla. E nella sua mente sogni e memorie si fondono senza posa, come quel pianoforte spostato in continuazione nel suo grande appartamento, senza essere mai suonato. Un film che non rinuncia a essere romantico, e bello da guardare e ascoltare. Certo è La Callas di cui si parla. E di Onassis e di John F. Kennedy e di Jackie ancora, e della Scala e della Fenice, e anche di Meneghini che fu il primo e unico marito, e della sorella, il suo mondo intorno come i cori dell’Opera e la sua voce di puro incanto.

Pablo Larraín si affida alla magia dell’opera e del cinema per dire del mito. Non ci sono Luchino Visconti e Pier Paolo Pasolini – che quel mito aiutarono a edificare – e in più, incomprensibile c’è il coro del Nabucco sui titoli di coda. D’accordo lei cantò l’opera nella parte di Abigaille diretta da Vittorio Gui nel 1949 al San Carlo di Napoli, ma il violento coro rompe l’emozione dell’immagine della morte di Maria Callas. Peccato.

El Jockey

Ancora in Concorso si è visto “El Jockey” di Luis Ortega, un film intrigante soprattutto per i toni dati dalla fotografia di Timo Salminen, il sodale di Aki Kaurismäki, e alla recitazione che rimanda proprio al regista finlandese. Ambientato a Buenos Aires tra delinquenti, fantini e una umanità decadente, il film racconta di Remo Manfredini, fantino leggendario che vede la propria carriera compromessa dal suo comportamento autodistruttivo che coinvolge anche una collega con cui ha una liaison amorosa. La commedia è simpatica e assurda, l’omaggio a Kaurismäki ben riuscito, applaudito.

Uomini e cavallette

‘Separated’ nasce da un testo omonimo – ‘Separated: Inside an American Tragedy’ di Jacob Soboroff – ed è un film di grandissima attualità, non solo negli Usa prossimi alle elezioni, ma in tutto quel mondo che alza barriere fisiche e politiche a quella che inumanamente si definisce “la piaga dei migranti”.

Ponendo sullo stesso livello cavallette ed esseri umani, il film affronta uno dei capitoli più oscuri della storia recente degli Stati Uniti, amplificato dal primo governo Trump: le separazioni delle famiglie di migranti, con bambini tolti alle loro famiglie per servire da deterrente alla migrazione proveniente dal Centro America, soprattutto da Guatemala e Paesi limitrofi, segnati da grande povertà e insicurezza civile. Oltre 5000 sono stati i bambini, anche neonati, strappati a madri poi incarcerate. E a oggi, confessa il film di Morris, oltre mille sono i bambini resi orfani e non ricongiunti.

Morris non si butta a capo chino contro le politiche migratorie trumpiane: sa e racconta che prima di Trump un decreto di Obama ha reso “la separazione delle famiglie una realtà” già nel 2014. Ci sono molte foto del 2014 di bambini tenuti in celle, separati per età e sesso. Negli Usa tutti vogliono dimenticare che proprio questo grande paese è stato costruito da migranti di vari paesi, lingue e tradizioni. Ma il benessere conquistato da questi fa si che gli altri siano visti come una minaccia: sui migranti si giocano le elezioni, e i migranti sono carne da macello per chiunque voglia vincerle.

Non esiste più umanità, urla Morris. E sullo schermo passano quelli che hanno voluto le leggi discriminanti e quelli – pochi e meno noti – che hanno cercato di contrastarle, tra cui un dirigente che spiega che il problema è del Congresso che queste decisioni le prende, più dei Presidenti che le propongono.

Già vincitore di un premio Oscar, Errol Morris merita di vincerlo anche con questo film: sarebbe il segnale che la società non è tutta afona di fronte al tema della migrazione e di quello che si fa di innominabile per bloccarla.

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