‘Anselm’, l’ultimo documentario del regista tedesco, è il ritratto di un grande artista contemporaneo e della sua ossessione
Un’assenza di ben sei anni, per quanto riguarda la fiction, cinque per quanto riguarda il documentario. Nonostante diversi cortometraggi e videoclip, il regista e produttore tedesco Wim Wenders sembrava aver fatto un passo indietro, forse per allontanarsi progressivamente dalla Settima arte, fino al 2023, anno del suo ritorno sul grande schermo. Prima con ‘Perfect Days’, che ha praticamente sbancato a Cannes, quindi con ‘Anselm’, entrato in competizione per l’Oeil D’Or lo stesso anno e, purtroppo, approdato nelle sale ticinesi oltre sette mesi dopo l’uscita ufficiale nel resto della Svizzera. Meglio tardi che mai, il ritratto del rivoluzionario ed eccentrico artista tedesco Anselm Kiefer consiste nell’incontro, e nello scontro, tra due maestri nel loro campo: lo stile preciso e raffinato, chirurgico di Wim Wenders, scruta nella profondità delle pitture e sculture del connazionale, quelle violente ‘occupazioni’ che riflettono la sua volontà di rievocare il nazismo, per esporre il senso di colpa tedesco e quel rimpianto, quella vergogna che non vuole venga dimenticata. Un’arte aggressiva nel suo forzare a ricordare e confrontarsi con gli orrori dell’Olocausto, soprattutto negli enormi paesaggi che riescono a riflettere un mondo perduto e devastato da trincee, tracce del passaggio di carri armati e mine, come un deserto mortale, dove nessun essere umano trova la forza di esistere.
Anselm Kiefer viaggia in bicicletta, con calma, percorrendo un hangar che stocca decine di lastre, ovvero i suoi peculiari quadri, inspessiti da materiali poveri, dati alle fiamme. È solo uno dei magazzini del suo atelier ‘La Ribaute’, un complesso di edifici che domina una più vasta proprietà e costituisce un vero e proprio museo a cielo aperto. Uno spazio di stampo quasi industriale, sovversivo come il suo creativo proprietario, che per anni fu etichettato come neo-nazista in seguito ai suoi autoscatti provocatori nei quali esibì il saluto nazista in varie note località europee. Una serie di opere che sono forme di ribellione, eppure contengono anche tributi, come le sculture angeliche senza testa, rimpiazzata da diversi oggetti che danno un senso di pesantezza, dedicate alle vittime femminili dello sterminio, senza contare i molti autori omaggiati: Ingebor Bachmann, Martin Heidegger e soprattutto il poeta Paul Celan, ispirazione di Anselm Kiefer, che si domanda cosa avesse provato, in quanto rumeno ebreo, a trovarsi costretto a scrivere in tedesco, un’ironia pesante e non nascosta, bensì apertamente dichiarata nei suoi unici panorami. L’artista proietta sue fotografie ingrandite, una tecnica usata anche dal recentemente scomparso Franz Gertsch, ma gli specchi con gocce di pioggia iperrealistici vengono sostituiti da immagini desolate, che portano con sé emozioni forti, sgradevoli e, in quanto tali, suscitano un approccio pittorico diametralmente opposto, rabbioso, dove il lanciafiamme diventa il sostituto del pennello.
Wim Wenders ci conduce con precisione millimetrica, con movimenti di macchina mostrati dall’inizio alla fine, a volte sovrapposti a immagini d’archivio. Una guida attraverso queste opere che sono cronache di un contemporaneo narratore di storie fastidiose, come uno dei libri illustrati in cui racconta, attraverso pagine di immagini sequenziali, l’avanzare del tumore al cervello di Heidegger, fino a diventare completamente nero, strabordando e inquinando con la sua putrescenza tutto ciò che lo circonda. Un viaggio sonoro, scandito con sussurri dal macabro retrogusto, anche a ritroso. Ci sono diversi momenti di fiction in cui Anselm Kiefer torna bambino, interpretato da nientemeno che Anton Wenders, giovanissimo pronipote del regista, ripercorrendo la propria storia d’infanzia, sempre rispettandone l’introversa natura. ‘Anselm’ è un titolo che avvicina anche lo spettatore al suo protagonista, o così sembra dovrebbe fare, ma è un altro elemento studiato a tavolino in questo gioco degli opposti, perché non c’è colloquialità o vera amicizia, l’artista rimane eccentrico e distante, ermetico nella sua saggezza, anche se il dolore che traspare risulta sufficiente a renderlo almeno un po’ più accessibile. Uno Zarathustra che non è sceso dalla sua collina, rimane un eremita, ma la sua filosofia riesce a sconfinare dalla caverna, uscire e perdurare, per mezzo dell’arte, forse alleggerendolo dalla sua ossessione per la guerra, che custodisce, maestro dell’eterno ricordo.