In una città dove la metà della popolazione fotografa e l’altra si fa fotografare, dove si situa il comune mortale?
Dove finisce il cinema e dove inizia la vita? Cosa è finzione e cosa non lo è?
Domande che si pone con il suo ‘Deuxieme acte’ Quentin Dupieux, in apertura al Festival (già nelle sale della Svizzera romanda). Una scelta che mette in campo, non senza ironia, alcune battaglie che caratterizzano il mondo del cinema attuale: molestie sessuali, la precarietà e lo sfruttamento dei lavoratori indipendenti, le questioni di genere, l’intelligenza artificiale.
Personalmente ho trovato il lungometraggio riuscito, lucido, intelligente, molto più attuale e aderente alla verità di altre grandi opere viste in questi giorni. Ho adorato il terreno flou e vago dove mi ha portato, il fango brumoso dove realtà e finzione si confondono – ma non è mio compito qui fare una critica del film. Lo prendo piuttosto a braccetto, così simpatico, dissacrante e anarchico, per iniziare una passeggiata pericolante in equilibrio tra realtà e finzione. Dupieux (che sforna ormai un film dietro l’altro, a Locarno ha portato un geniale ‘Yannik’, a Venezia un perturbante ‘Daaaaaalì!’) si interroga (ancora) sull’equivoco insito nell’idea che abbiamo di realtà. È questo il centro del film: la generiamo con gli occhi e l’immaginazione oppure ha a che vedere con la natura corporea, con la materialità? È più reale ciò che vediamo al cinema o la vita concreta? L’immaginario o il vissuto?
Il nostro Quentin non ci dà risposta e io mi accorgo che le domande che mi pongo qui, mentre passeggio la sera lungo le strade del centro di questa cittadina sul mare, non si distanziano molto. Dove inizia l’immaginazione e dove finisce la realtà? Sicuramente vivere qui la festa del cinema, dove la festa ruba lo spazio al cinema, porta spettatori e visitatori in un mondo altro. Che poco ha a che fare con la tangibilità di quello attuale. Le battaglie si combattono per un posto al ristorante, in quella viuzza tra Rue d’Antibes e il Palais che la sera si riempie a dismisura di vocianti e allegri festivalieri. O per l’entrata a una glamourissima festa in spiaggia, che richiama con luci laser pubblico adorante per accedere con gli occhi in quell’atmosfera al di là dei gorilla. “Ti giuro, questo è l’ultimo Cannes che faccio, è un incubo, è orribile, non mi fanno nemmeno entrare alle feste!” sbraita spazientito e capriccioso al telefono un pariginissimo giovane produttore barra regista barra attore chi lo sa, mentre accanto a lui una modella urla: “Stanno arrivando le mie due talent questa sera, le vogliamo far entrare?”. Un anziano sornione navigato, dall’alto dei suoi anni di esperienza nella riviera cinematografica, si volta e con tutta la calma che il suo smoking impone: “Deve prendere il braccialetto rosso, ce l’ha lei il braccialetto? Lo davano al Marriott, eh ma ora, chissà”. E intanto sfilano tra le gambe e le braccia di tutti, si intrufolano alla festa, due bellissimi modelli afroamericani, senza né braccialetto né invito. Benvenuti al festival del mistero, dove tutto sembra accessibile ma è impossibile trovare le chiavi, non sono mai al posto giusto, e devi imparare le strade per tutto, gli accrediti, le sale, le feste, i braccialetti, le persone.
In una città dove la metà della popolazione fotografa e l’altra si fa fotografare, dove si situa il comune mortale? Lui, lo spettatore di questo film che si srotola di fronte al suo sguardo attonito? Respira la stessa aria di Emma Stone, di Louis Garrel, Richard Gere, Uma Thurman, Willem Defoe, che sono lì a uno schiocco di dita, così lontani dalla sua quotidianità, così vicini ora. Eppure accade. Miti appaiono all’improvviso in carne e ossa, come in un sogno, come in una pellicola, esistono. Lo spettatore ha il potere di farli entrare nel suo cellulare, e si sente un pochino più importante. Poi, di colpo, come per una séance de minuit, ci stacchiamo da tutto questo ed entriamo in sala, ci sediamo su comodissime poltrone rosse. Tra una maglietta a righe e un blazer, un vestito da principessa delle fiabe sfila timido e veloce al suo posto. Siamo qui, insieme. Si apre il rideau, si spengono le luci. Sprofondiamo nell’Aquarium di Saint-Saëns, usciamo dal film, entriamo nella cruda realtà.