In concorso a Nyon, il documentario di Ben Donateo e Michel Passos Zylberberg offre spunti di riflessione sull’influenza occidentale sulla cultura masai
Siamo ancora ben lontani dal lasciarci alle spalle i fantasmi del nostro passato colonialista, che ha influenzato perlopiù negativamente tutte le culture e le minoranze etniche africane in generale, anche perché siamo sempre impegnati mentalmente e moralmente dai conflitti più vicini, o più importanti per noi quanto a risalto mediatico. ‘Muzungu’, documentario di Ben Donateo, che abbiamo incontrato, e Michel Passos Zylberberg, è un’ottima occasione per fermarci, ricordare e riflettere riguardo al nostro impatto sul continente africano, osservando la cultura evanescente dei masai attraverso il nostro occhio di muzungu, cioè di girovaghi, uomini bianchi.
Girato nella regione del Kilimangiaro, soprattutto in Kenya ma anche a ridosso del confine con la Tanzania, è un film caratterizzato da uno sguardo che contempla uno spazio ormai arido e sempre meno tradizionale, veicolato attraverso un ventaglio di scelte stilistiche particolari, come ad esempio il flashback muto, ripreso in super8 e 16mm, oppure la quasi totale assenza di voci parlate e dialoghi, o ancora il grandangolo onnipresente, che gioca un importante ruolo di messa in relazione tra i personaggi e lo spazio. Scelte premiate da Visions du Réel, dal 12 al 21 aprile a Nyon, festival che ha voluto questa pellicola (prodotta da Donateo, Olmo Cerri di Rec, Jenny Covelli e Matilde Tettamanti di Ginny Sa) nella competizione nazionale.
Ben Donateo: qual è il motivo della scelta del soggetto e del titolo ‘Muzungu’, visto che non vi è presenza di uomini bianchi nel film?
È stato un iter molto lungo, la ricerca del villaggio incontaminato è stata più difficile di quanto pensassimo, ma fortunatamente Michel era già stato in Kenya e aveva stretto amicizia con il figlio di un capo masai locale, dunque volevamo inizialmente raccontare questo strano incontro culturale. Ma i nostri piani sono cambiati e abbiamo deciso, mossi anche dalla volontà locale, di concentrarci in particolare sulle tradizioni della loro cultura, sempre più sofferente per l’inserimento e l’imposizione di quella occidentale. L’idea era dunque di raccontare attraverso i nostri occhi di muzungu, ma anche mostrare gli “stranieri in terra propria”, per mezzo di questi contrasti culturali che avvolgono un’identità che purtroppo sta scemando, sempre più invisibile. Questa scelta del titolo era forse rischiosa da un punto di vista di appropriazione culturale ma, come confermato già dai primi spettatori, fortunatamente nessuno ha frainteso le nostre intenzioni, che erano quelle di portare a una serie di riflessioni e non di esporre un messaggio esplicito.
Qual è il motivo delle scelte stilistiche peculiari del vostro documentario, come la lontananza e la manipolazione sonora?
Il sodalizio con Michel Passos Zylberberg è basato sulla correttezza, la convergenza di opinioni e di stile, anche se lui nasce come fotografo e io mi concentro maggiormente sullo storytelling. Abbiamo direzionato la storia proprio attraverso la dimensione sonora, viaggiando tra i silenzi, mentre l’uso del grandangolo appartiene al nostro modo di concepire l’immaginario visivo, anche per instaurare una via di fuga allo spettatore, che avrà dunque la possibilità di scegliere cosa guardare, su cosa concentrarsi all’interno dell’inquadratura, mantenendo in ogni caso il rispetto per l’intimità delle persone reali coinvolte. Le scene in super8 e 16mm servivano a relazionare il passato dell’anziano cieco, che ancora vive totalmente secondo le tradizioni ed è un elemento nostalgico, in contrasto ad esempio con il giovane studente, seguito da dietro le spalle della sua divisa scolastica e che rappresenta lo scontro, in questo caso, con la cultura anglosassone.
Visto che non era nostra intenzione fare una morale o lanciare un messaggio di denuncia, abbiamo cercato di creare immagini suggestive per far trarre le conclusioni allo spettatore, secondo la sua opinione, osservando quest’esposizione, per contrasti, dei cambiamenti culturali e climatici avvenuti in quel luogo. In generale, ci piace fare documentari di un certo tipo. Le mie ispirazioni personali sono di varia natura: Gianfranco Rosi, ad esempio, per quanto riguarda il documentario più puro, ma anche Pedro Costa, che con il suo particolare storytelling, anche se pensato per la finzione, mantiene comunque il suo involucro reale documentaristico.
L’esposizione del decadimento della cultura masai vuole riflettere una critica all’impatto culturale occidentale nei confronti di tutta la cultura del continente africano?
Non ci permetteremmo mai ed è impossibile parlare per tutto il mondo africano, che è davvero troppo vasto e sfaccettato, anche lontano, ma è anche vero che il passaggio e la permanenza occidentale abbiano avuto e abbiano tutt’ora una serie di conseguenze negative, che influenzano tutto il continente. Anni di colonialismo e inserimento più o meno forzato, dunque di sfruttamento di risorse locali, sono solo alcuni tra i mille termini che esistono per raccontare il rapporto che abbiamo avuto con l’Africa, per cui a mio avviso è inevitabile un certo impatto.
Un esempio nel film è la scena, volutamente molto lunga, di preghiera, che si sofferma su questa strana sorta di fusione di due mondi lontani, oppure l’impatto stesso della macchina da presa sulle persone, a volte felici e curiose, altre volte a disagio, quasi impaurite dalla presenza estranea. Non avevamo la volontà che si capisse esattamente l’intento, bensì quella di innescare una riflessione da uno dei tanti spunti che abbiamo lanciato nel film. Un altro esempio è la presenza delle donne, che sembra marginale ma riveste un ruolo molto importante: all’inizio, il giovane studente viene accudito dalla zia, capo del proprio ambiente domestico, mentre alla fine, attorno al fuoco, sono le donne a raccontare gli aneddoti e le storie, come da tradizione masai, un atto che riflette il tramandare ai posteri. Nonostante il mondo prevalentemente patriarcale, quindi, le donne riescono comunque a trovare la propria centralità all’interno della comunità. Siamo molto soddisfatti del risultato, nonostante la modesta quantità di mezzi a nostra disposizione, e al tempo stesso molto onorati che il nostro lavoro sia stato riconosciuto e ammesso a un festival stimato e importante come Visions du Réel.