Con l’Intelligenza artificiale che già scrive testi e canzoni, quello dell’intonazione dei cantanti sarà l’ultimo dei problemi. Per fortuna o purtroppo
Qualche anno fa, elencando i dieci lavori che in futuro saranno sostituiti dai robot, un sito di attualità molto ottimista metteva in guardia: 1. Gli addetti al servizio clienti; 2. Gli addetti alla contabilità; 3. Gli addetti al ricevimento; 4. Il lavoro manifatturiero e farmaceutico; 5. I servizi di corriere (un ritorno alle origini, la cicogna non è forse la madre di tutti i droni?); 6. I servizi al dettaglio; 7. I medici chirurghi (e qui il discorso si fa serio); 8. I soldati; 9. Gli autisti di taxi, autobus e camion; 10. Le guardie di sicurezza. Sempre sul sito di attualità ottimista, parevano scampare il rischio di estinzione le principali attività artistiche, frutto dell’ingegno di noi presunti esseri superiori.
Poi a Locarno, in un tipico pomeriggio afoso da Festival del Film, Laurie Anderson, donna ingegnosa, raccontò che nello stanzone di una rinomata università australiana qualcuno aveva caricato in un computerone tutti i suoi testi insieme a tutta la Bibbia e ne era uscita un’interpretazione che l’artista aveva giudicato in modo poco glorioso. A Locarno, quel pomeriggio, coloro che ancora pensavano che l’Intelligenza artificiale (Ia) fosse una cosa per furbi e smanettoni produssero la madre di tutte le espressioni che, anche parafrasate, sottintendono un’emergenza: “Anderson, abbiamo un problema”.
Contrariamente a (o coerentemente con) chi sostiene che senza l’uomo l’Ia non saprebbe cosa fare, e senza scomodare la Bibbia, oggi sappiamo che se metti nel computerone tutti i testi di Laurie Anderson, la macchina può scrivere un pezzo ‘alla Laurie Anderson’. La cosa vale per tutti: se carico in un computerone tutti i testi di Bob Dylan, posso chiedere alla macchina di scrivere un pezzo ‘alla Bob Dylan’, ma anche (sempre che la cosa possa risultare gradevole) di farmi cantare con la voce di Bob Dylan, perché il computerone ne fa proprie tutte le caratteristiche e produce un Dylan alternativo, eventualmente intonato. Senza scomodare Mister Tamburino, nel suo Christmas album del 2023 Gerry Scotti canta come un provetto Frank Sinatra grazie all’Ia natalizia, applicata all’esecuzione di chissà quale prestavoce (natalizio).
Ma l’intonazione è l’ultimo dei problemi in questo traffico d’identità generato dall’Ia. Parlando di immagini in movimento, gli attori di Hollywood temono che un giorno si potranno girare film con loro ma senza di loro; quanto alla musica, presto ci troveremo a teatro per sentire le composizioni dell’ultimo degli chansonnier chiedendoci (almeno fino a quando il pensiero unico non diventerà “e dove sta il problema?”) se le liriche e melodie vincenti che si ascoltano siano davvero il prodotto dell’ultimo degli chansonnier o dell’ultimo dei computeroni. Ma questo già accade.
Aggiornato a ieri, il sito di attualità dice un po’ meno ottimisticamente che a salvarsi dall’estinzione sono per il momento anche cuochi, meccanici, manovali, operatori agricoli, produttori alimentari, elettricisti e camerieri (i calciatori non rischiano nulla, buttarsi per terra non necessita di Ia). Nelle categorie a rischio sono improvvisamente comparsi gli scrittori, non distanti dagli autori dei testi delle canzoni e dagli autori di qualsiasi cosa in ambiti di spettacolo.
Restando alla musica, non serve scomodare l’Ia per dire sapere da tempo ne esiste di prefabbricata. Tutto questo per dire: di fronte a tale apocalittico scenario, qualcuno ancora si preoccupa se i cantanti usano o meno l’Auto-Tune? La polemica sul software che rende tutti intonati torna ciclicamente, ma sono almeno vent’anni che questa rivoluzione da poche centinaia di franchi (esiste anche craccata) ha abituato le nostre orecchie all’intonazione perfetta, un piccolo falso storico che ci accompagna dal lontano 1996.
“È così straordinariamente astratto che è difficile spiegarlo coerentemente”, dice Andy Hildebrand, cognome da clinica e cervello da Cern. L’ingegnere elettronico della compagnia petrolifera statunitense Exxon ha il sorriso sardonico di chi l’ha combinata grossa e da quasi trent’anni continua a riderci sopra. È il 2021 e guarda dritto nella telecamera di ‘This Is Pop’, tra le serie utili di Netflix, raccontando di come – prima di fare i milioni con la musica – analizzava i dati sismici per localizzare il petrolio nel sottosuolo: “Si fanno esplodere cariche di dinamite nel terreno e si ascoltano i riverberi per mezzo dei geofoni. Ma è un po’ come uscire in strada nel mezzo di un temporale, chiudere gli occhi e analizzare il rombo del tuono per stabilire la forma delle nubi. Il dato sismico è il suono e la comprensione di questi sistemi consente di manipolare il resto”.
Un giorno del 1996, grazie allo studio dei dati sismici, Hildebrand cambiò la musica per sempre: “Pranzavo con uno dei nostri distributori e la moglie, cantante, mi chiese di inventare un dispositivo che l’aiutasse a essere intonata”; finito il dolce e bevuto il caffè, Hildebrand fa un paio di equazioni e quattro mesi più tardi sul mercato arriva Auto-Tune, software che “permette di correggere l’intonazione vocale benché venga spesso utilizzato anche per creare particolari effetti sonori” (l’Enciclopedia digitale). Nel 1996, il passaparola è rapido quanto la gestazione del programma e tutti gli studi se ne procurano una copia in breve tempo. “Mi hai cambiato la vita”, dice un discografico a Hildebrand: “Prima il mio lavoro consisteva nel trovare persone che sapessero cantare, ora mi basta trovare persone avvenenti”.
Per un paio d’anni, Auto-Tune è un segreto da confessionale, tutti lo usano ma nessuno lo dice. Fino al 1998, quando il produttore britannico Mark Taylor scopre che se giri fino in fondo una determinata manopola (una manopola digitale), il programma crea nella voce registrata un effetto buffo e affascinante, tra il fantascientifico e l’esoterico; Taylor lo applica alla voce di Cher nella di lei canzone ‘Believe’, millantando per un anno intero che quell’effetto sia il prodotto di un vocoder, strumento divenuto popolare una decina di anni prima, altro affascinante risultato dell’analisi e della sintesi elettronica della voce umana (lo si ascolta, per esempio, negli extraterrestri Rockets, band di culto del cosiddetto ‘space rock’). Quando il segreto diventa di Pulcinella, Taylor fa coming out: “Stavo solo giocando. È che con la voce di Cher sembra fantastico”. Hildebrand, riferito alla manopola, commenta: “Credevo che nessuno sano di mente l’avrebbe usata così”.
Auto-Tune arriva al mondo del rap via Faheem Rashad Najm, più noto come T-Pain: abbacinato da Jennifer Lopez in ‘If You Had My Love’, il rapper si procura una copia del software e applica su di sé quel suono celestiale nell’album ‘Rappa Ternt Sanga’; quando il mondo scopre che l’Auto–Tune intona gli stonati, T-Pain è sommerso da quella che oggi si chiama ‘stormshit’; è irriso, screditato, messo al bando dai suoi stessi fratelli fino a quando a usare l’Auto-Tune è Kanye West, e tutti gli dicono ‘bravo’ (a Kanye West). T-Pain sarà riabilitato solo nel 2014: ospite del Tiny Desk Concert, i web-concerti di Npr Music a Washington, il rapper si presenta in acustico, come la serie impone, e il mondo scopre che canta divinamente anche senza il famigerato software. Riabilitato ma incazzato, T-Pain dice: “Ciò che conta è scrivere belle canzoni: e voi vi fermate a un plug-in?”.
‘Sì, ho fatto cantare anche galli e galline’
Il produttore, per dirla con Battisti, è “quel gran genio del mio amico”, uno che “con un cacciavite in mano fa miracoli”. Metaforicamente parlando, il cacciavite è uno dei molti ‘tool’ (attrezzi digitali) con i quali ogni buon fonico oggi risolve le imperfezioni musicali. All’inizio degli anni 90, Emilio Rossi si faceva le ossa negli studi analogici, nei giorni in cui per i cantanti non c’era altro modo di intonare le voci se non quello di essere intonati e, per gli strumentisti, di mettere a tempo gli strumenti se non con l’andare a tempo per dote, o grazie all’esercizio. Dopo avere ‘sbirciato’ (da assistente di studio) Paolo Conte e altri grandi nell’atto di registrare le proprie voci su fragili e costosi nastri magnetici, Emilio ha aperto il suo Phoenix Studio a Castel Mella, nel Bresciano, terra non solo di dance e di rock.
«Prima di Auto-Tune – ci racconta – per reintonare una voce esisteva soltanto un piccolo software chiamato ‘Pitch Doctor’. Al tempo dei nastri magnetici invece, per correggere le stonature facevamo i cosiddetti ‘punch-in’, ovvero chiedevamo al cantante di ricantare la parte imperfetta e registravamo solo quella, ‘inserendola’ in quel preciso istante, abbandonando la registrazione subito dopo. Ma negli studi in cui giravano tanti soldi e tante tracce, perché il nastro costava caro, si registravano tracce vocali su più piste, ed era poi il fonico a fare il comping», ovvero il collage con le parti migliori delle singole esecuzioni. «Un tempo si faceva a mano, riversandole su di un’unica traccia; oggi con l’home recording digitale si hanno infinite tracce e infiniti comping».
“L’industria discografica ha sempre qualcosa da nascondere”, dice in ‘This Is Pop’ Robin A. Smith, l’orchestratore di ‘Believe’. In tempi analogici, anche nella ‘classica’, soprattutto nel caso del pianoforte, si tagliavano e incollavano fisicamente parti di nastro per ottenere l’esecuzione perfetta. Anche nella ‘leggera’: l’assolo di sax di Phil Woods in mezzo a ‘Just The Way You Are’ di Billy Joel è il prodotto del taglia-incolla fisico del produttore Phil Ramone, che da più esecuzioni del grande jazzista ‘compose’ uno dei racconti solistici più belli del pop. Se poi si parla di dischi dal vivo: «Erano i primi anni 90 – continua Emilio –, vidi il concerto di un noto cantautore in diretta televisiva, con tutte le imperfezioni vocali che l’esibizione dal vivo sempre porta con sé. Pochi giorni dopo ero a Roma, ad assistere al mix di quello che sarebbe diventato il concerto in VHS e poi il disco di quanto visto in tv: riascoltando le tracce mi accorsi che quel cantautore cantava senza una sbavatura. Gran parte delle voci erano state reincise». La cosa riguarda molti dei dischi dal vivo che hanno fatto la storia.
Con l’orecchio abituato all’Auto-Tune, usato nella sua funzione di correttore d’intonazione e non di ingrediente à la ‘Believe’, «ascoltando molti dischi usciti prima del 1996 si scoprono tante stonature. E questo anche perché tra l’intonazione perfetta e l’interpretazione a volte si optava per la seconda».
Auto-Tune non ha solo risolto i problemi d’intonazione, ha anche abbattuto tempi e costi: «Fino alla sua invenzione, per avere la voce definitiva potevano servire giorni di studio. Oggi sistemare una voce costa relativamente poco grazie al tempi risparmiato, ma i grandi cantanti ancora producono un ‘buona la prima’ o un ‘buona la seconda’. Con gli stonati è più difficile, e io ho fatto cantare un sacco di galli e galline. Riascoltandoli, a volte mi sono detto: “Però, sono stato proprio bravo…”». Se la ride il Rossi, che ci tiene a dire che Auto-Tune corregge non solo le voci, ma pure l’intonazione di un qualsiasi strumento solista: «Anche nel jazz, spesso e volentieri. Capita di intonare un sax, un basso. Se una corda è leggermente ‘fuori’, si può decidere di registrare ex novo la traccia, chiamando il musicista, pagandogli il disturbo, o applicare Auto-Tune e risparmiare i soldi». Lo stesso vale per il mettere a tempo una batteria, cosa possibile da quando esiste l’hard disk recording, a suo modo una Ia ante litteram.
Guardando alle ultime vicende sanremesi (Annalisa, nata intonata, accusata di fare uso di Auto-Tune), sembrano pochi i cantanti ‘scesi in piazza’ contro il moderno abuso del software: sarà che in tanti ne fanno uso, magari moderato, anche dal vivo? «Nessuno di loro mi chiede esplicitamente di usarlo», chiude il Rossi. «A volte il cantante nemmeno lo sa, è il suo produttore che vuole che gli metta ‘a posto’ la voce. Il cantante si riascolta a disco finito e dice, come dico io: “Però, sono stato proprio bravo”». A chiedere di usare il software sono semmai i trapper: «Auto-Tune come scelta stilistica? Ci sta, è un colore in più, ma una cosa era Cher, un’altra i trapper che senza Auto-Tune non esisterebbero. Per lavoro, se mi chiedono di usarlo non dico di no, ma in quel caso non è passione».
Emilio Rossi