laR+ L’intervista

Monica Guerritore, i miei ‘Ginger e Fred’ in un mondo di sosia

Protagonista e regista, ha adattato per il teatro la visione di Fellini: ‘La tv, come diceva lui, è tutta un verosimile’ (il 20 e 21 febbraio al Sociale)

“Oggi vogliono ancora due passi di danza nel buio di un albergo, come chiedono ad Amelia, che risponde ‘ma qui non rende’”
(M. Giusto)
17 febbraio 2024
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Pippo e Amelia si facevano chiamare Ginger e Fred e sono stati famosi. Ora, dietro le quinte dello show natalizio di una tv privata, attendono di fare la cosa che sapevano fare meglio, danzare, per rivivere le emozioni di un tempo e forse quel sentimento che si erano negati. Non sanno che il loro numero serve alla produzione per riempire lo spazio chiamato ‘rigatteria d’antan’. Nell’attendere l’esibizione, la purezza di Pippo e Amelia è travolta da una moltitudine di sosia, dilettanti allo sbaraglio e strane figure di ogni arte, inseriti in un disegno più grande di loro.

‘Ginger e Fred’ è la tv secondo Federico Fellini, visione giunta dal 1986 fino a noi pressoché immutata. Monica Guerritore l’ha adattata per il teatro, curandone anche la regia e indossando i panni di Amelia. La attende il Teatro Sociale di Bellinzona per due repliche, martedì 20 e mercoledì 21 febbraio alle 20.45.

Monica Guerritore: perché questo Fellini?

Perché cerco sempre di sentire cosa parla al pubblico. L’ho imparato all’inizio, da Strehler che lavorava a un teatro della polis i cui racconti sono quelli che l’autore e il regista sentono necessari. Negli ultimi due anni ho portato in scena ‘L’anima buona di Sezuan’ di Brecht, che parla del perché siamo diventati così cattivi. Quest’anno ho trovato nell’idea poetica di Fellini il corrispettivo con quanto viviamo nelle nostre case, il potere mediatico di quella scatola chiamata televisione preconizzato già nel 1986 e che in questi giorni di Sanremo ha mostrato il meccanismo da dentro, che è una delle missioni politiche del teatro.

Ciò che in Fellini nel 1986 valeva per la tv commerciale, l’avanti tutta per impennare gli ascolti e avere riscontro pubblicitario, oggi vale anche per la tv di Stato. In tutto questo, la bellezza del regista, che io sposo, è la tenerezza verso gli esseri umani: non è un “noi siamo i buoni e voi i cattivi”, ma la presa di coscienza che il mondo va così. Peccato solo che la pubblicità uccida il tempo da dedicare al talento, anche quello di Ginger e Fred che sono lì non per riempire gli spazi, ma per danzare, il loro atto di grazia assoluta.

Ha citato Sanremo. C’è qualcosa che salva?

Io salvo tutto, come fa Fellini, non ci sono né buoni né cattivi, ma il meccanismo è questo e bisogna esserne consapevoli. Bisogna sapere che le risate sono spesso artificiali, gli applausi anche e pure i like.

Anche il pacifismo dei cantanti?

Entrando in una scatola così poco credibile, qualunque cosa rischia di trasformarsi in spettacolo. Ma anche la presa di posizione va bene, perché comunque qualcosa dice. Dobbiamo solo essere consapevoli di quel che vediamo. Per Fellini, quella scatola la subiamo perché è in casa nostra, al cinema è diverso: scegliamo noi di uscire di casa per andarci.

Chi sono oggi i suoi Ginger e Fred?

Sono sempre gli artisti, ai quali ancora viene chiesto qualcosa di tangibile. Devi dimostrare chi sei perché nessuno ti conosce, perché non c’è il tempo di andare a vedere cosa hai fatto prima. Vogliono ancora due passi di danza nel buio di un albergo, quelli chiesti ad Amelia, che risponde “ma qui non rende”...

Come vive l’odierna televisione?

La mia carriera televisiva è fatta di fiction e cinema, e in quel campo si lavora tanto e a volte molto bene. Non comprende gli show, che sono davvero, come dice Fellini, “tutto un verosimile”, in un poggiare sul far finta di essere qualcun altro, e non a caso i miei Ginger e Fred fanno parte della serata dei sosia. Penso al ‘Cantante mascherato’, a ‘Tale e Quale’, un ‘già fatto’ e un ‘già cantato’. L’originalità necessita di tempo e di prove, quelle che anche Ginger e Fred pretendono. Ma il tempo costa e le prove non sono redditizie.

A Venezia è stato annunciato ‘Anna’, il film su Anna Magnani del quale lei sarà regista e protagonista. Magnani che moriva negli stessi giorni in cui lei esordiva nel cinema…

È vero, era il 1973. Io debuttai in maggio, Anna morì a settembre. L’idea di un film nasce dalla constatazione che non esiste un racconto cinematografico della stranissima vita, anche dolorosa, di Anna Magnani. Nel 1956, con la vittoria dell’Oscar la sua vita prende una piega complicata. Sono gli eventi a fare di lei l’attrice cupa che in realtà non era. Il mio vuole essere un viaggio sull’artista al femminile, sulla fatica che ha dovuto fare anche la più grande di tutti noi.

C’è un grande sforzo produttivo dietro questo film e la Svizzera ne è parte…

Abbiamo l’interesse molto forte di una casa di produzione svizzera (la zurighese Catpics, ndr), speriamo di concludere presto l’accordo. Mi dicono che un anno e mezzo non è tanto per chiudere un piano finanziario. Sarà che io sono abituata a teatro, dove basta guardarsi in faccia. La Svizzera c’entra anche per la necessità di girare da voi: il figlio di Anna Magnani fu ricoverato fino all’età di 15 anni per la poliomielite in una casa di cura di Losanna, e Carlo Ponti offre ad Anna ‘La ciociara’ mentre lei si trova a Losanna.

Lei è della scuola Favino: per recitare gli italiani servono attori italiani perché “la Magnani fatta da una dell’Ohio non ti manda a quel paese allo stesso modo”…

Certo, il suo “ma va’ a morì ammazzato!” è un suono che non potrai mai imparare, e nemmeno la sua risata. Spero però di poter coinvolgere attori americani per i ruoli di Ingrid Bergman, che ha fatto parte della vita di Anna Magnani così come Tennessee Williams, che la definì “la più grande attrice della nostra epoca”. Certo, non potremo avere nomi come Scarlett Johansson o Kevin Spacey, ma confido nell’amore che il cinema americano prova per Anna.

Tornando alla tv. Intervistata da ‘Belve’, lei afferma in prima persona il suo valore artistico e l’essere seduttiva, quando la risposta di rito è più o meno sempre “ma questo devono dirlo gli altri”…

Considero il talento un dato di fatto. Posso affermare il mio valore perché sono diventata la persona che sono dal niente che ero. Ci ho messo cinquant’anni, ma poggio su basi solide che sono la capacità di fare questo mestiere, il saper gestire tutto quanto implicano regia e recitazione. La seduzione è il sedŭcere latino, il portare a sé, e a teatro, portare il pubblico a sé è la prima cosa che fai quando entri in scena, solo respirando, ben prima della gestualità.

Chiudo con una sua definizione di teatro: “È raccontarci delle cose e cercare di capire insieme quale mistero è l’essere umano”. Perdoni la domanda generica: cosa ha capito Monica Guerritore dell’essere umano?

Ho capito che è bifronte, che si maschera, tema che ho affrontato in Fellini e in Pirandello. Nella nostra ‘vita di sotto’, l’essere umano respira la verità da solo, sul palco; nella ‘vita di sopra’ si mette una maschera, utile anche a semplificarsi la vita: “Come stai?”, “bene grazie” e magari è un disastro, sono semplificazioni, spesso incrostazioni del mondo mediatico che impone che io sia quello che tu vedi. E invece io amo il teatro perché si fonda su basi diverse e perché la figura è sfocata. Avevo 15 anni, ero in platea e Strehler, parlando di luci, disse: “Non voglio vedere le facce, non voglio i proiettori frontali, voglio i controluce”. Per lui il teatro non era vedere l’uomo, ma il racconto di un uomo, che diventa il racconto di tutta l’umanità.

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