Simon Waldvogel del Collettivo Treppenwitz ci racconta ‘Surviving you, always’, riflessione sul lutto attraverso linguaggi scenici diversi
Una riflessione sul lutto, sulla perdita, sul ricordo; ma ‘Surviving you, always’ non è uno spettacolo sulla morte, come ci ha spiegato Simon Waldvogel del Collettivo Treppenwitz che si appresta a presentare il suo sesto lavoro teatrale, il quarto coprodotto dal Lac.
La prima si terrà giovedì 9 gennaio alle 20.30, con replica il giorno dopo alla stessa ora, al Lac. Waldvogel, oltre che autore, è anche interprete insieme e Giacomo Toccaceli e Francesca Sproccati; lo spettacolo si avvale del progetto visivo e spaziale di Daniele Spanò, dei costumi di Francesca M. De Giorgio, del disegno luci di Savino Caruso, della composizione musicale e live music di Magda Drozd e della collaborazione alla drammaturgia di Ilaria Buffa.
Simon Waldvogel, come è nato lo spettacolo? Come altri spettacoli del collettivo, si parte da un’esigenza personale di raccontare qualcosa?
Il collettivo si muove sempre un po’ su quel crinale: come rendere universale una storia personale e biografica, come trasformarla in un’esperienza collettiva? Negli ultimi anni ho accompagnato, come regista o assistente alla regia, altri compagni del collettivo ma non ho fatto nulla di mio perché non avevo esigenze, non avevo qualcosa da trasformare. E adesso è arrivato ‘Surviving you, always’, e dico così perché è come se questo lavoro fosse arrivato a me e non viceversa: ho attraversato degli anni un po’ complicati, con un lutto familiare – è mancata mia sorella qualche anno fa – e ho avuto bisogno di distanziarmi da quell’evento per provare a parlarne. Ma non volevo parlarne in modo drammatico o in modo personale: volevo creare una sorta di esperienza collettiva in cui il pubblico potesse attraversare le proprie mancanze, mettere qualcosa di proprio in quello che vedrà, in quello che percepirà. Almeno questo è il mio desiderio, non so se ci riuscirò… l’esito di questa ricerca ha portato a un lavoro ibrido, dove ci sono diversi linguaggi scenici che cercano di restituire una sorta di esperienza collettiva che riguarda il lutto, la mancanza, l’assenza di qualcosa.
Il tema è il lutto ma, se capisco bene, più che della morte si parla della vita.
Sì: non volevo parlare di morte ma fare una sorta di dedica a chi è sopravvissuto: parlare dei vivi, di quanta vitalità rimane, permane anche dopo i lutti. Guardare dall’altro lato: non alla morte ma a chi rimane cioè a tutti noi. Ognuno di noi è infatti sopravvissuto a delle persone, ma in questo lavoro ho cercato di allargare il discorso: si può infatti sopravvivere a un’esperienza, a una fase della vita, a un luogo che non c’è più o che abbiamo lasciato.
Lo spettacolo è frutto di una riflessione personale o c’è stata una ricerca? Le letture, dalla psicologia alla filosofia alle religioni, su questo tema non mancano.
Innanzitutto sto attraversando questa ricerca insieme a degli artisti che hanno preso le mie idee e le hanno tradotte, le hanno elevate. Poi ho letto diversi saggi, insieme anche alla poetessa Ilaria Boffa. Ricordo in particolare un saggio, ‘Trauma and memory’ di Peter A. Levin, dove l’autore parla della ‘body memory’, dell’idea che la memoria non è una cosa nella testa ma risiede nelle cellule del nostro corpo: tutte le esperienze che ci hanno attraversato in qualche modo rimangono nel corpo. Questo è stato sicuramente uno dei punti di partenza: in scena il corpo diventa una tela bianca su cui dipingere il ricordo. E poi ovviamente ho letto dei saggi sulla psicologia del lutto e ho anche fatto un percorso di terapia: sicuramente queste cose hanno influito. Però, ripeto, non è solo farina del mio sacco, è più una sorta di collage di linguaggi che cercano di rivivere e di superare in qualche modo una soglia.
A proposito di questa commistione di linguaggi, ai membri del Collettivo Treppenwitz piace “giocare”, ma la sperimentazione non è in genere fine a sé stessa. In questo caso come si giustifica?
È vero, la sperimentazione è un po’ la nostra cifra e cerchiamo di non farlo seguendo delle mode, ma per trovare delle forme che esprimano quello che abbiamo necessità di esprimere. Per questo progetto ho avuto l’opportunità di una residenza non produttiva al teatro Kaserne di Basilea. Quando Carmelo Rifici del Lac me l’ha proposta non mi sentivo pronto, poi mi sono detto che era una residenza non produttiva e quindi sono partito per Basilea. Mi è stata data una grande occasione e in quel momento ho capito che stava nascendo qualcosa. Con me avevo delle diapositive della vita di mio padre – dagli anni Sessanta quando è nato agli anni Novanta quando è morto – che avevo trovato in un trasloco. Ho comprato online un proiettore e ho cominciato a lavorare con quelle immagini: volevo ricostruire questa memoria, volevo vedere tutta la vita di un padre che io non ho conosciuto.
Questo lavoro è arrivato dopo un lungo processo di ricerca che il collettivo ha fatto con la performance di Camilla Parini ‘Je suisse (or not)’ nel quale in qualche modo avevamo già cominciato a usare queste diapositive. Camilla poi ha deciso di utilizzarle in un suo modo – io e Camilla in qualche modo ci contaminiamo nelle nostre ricerche –, lavorando su una connotazione identitaria, sulla memoria che ci definisce o non ci definisce. Io ho voluto proseguire lavorando sulla memoria legata a chi non c’è più. Da lì è arrivato il primo linguaggio che è stato il corpo: ho cominciato a proiettare su di me queste immagini, ho cominciato a diventare il luogo del ricordo. Così è arrivata la ‘body memory’, poi è arrivata la psicologia.
E la parola?
Non avvertivo necessità di parlare: per me non ci sono parole per parlare di lutto. Vale per me, ma quando una persona sta male, quando attraversa momenti molto complessi è difficile esprimersi attraverso le parole. Ho quindi immaginato che questo lavoro sulle immagini potesse interagire con una sorta di drammaturgia musicale. Allora ho contattato Magda Drozd, una bravissima musicista con cui ho collaborato altre volte e abbiamo cominciato a lavorare insieme. In quel momento ho capito che in qualche modo la parola doveva arrivare: avevo bisogno di dire delle cose, ma non le volevo dire in modo narrativo, non le volevo dire in modo teatrale e quindi ho provato a dirle attraverso la poesia. E così è arrivata Ilaria Boffa, una poetessa che avevo conosciuto casualmente qualche anno fa e che lavora con la poesia registrata e il field recording. Lei è venuta a Basilea a trovarmi, abbiamo cominciato a scrivere delle cose. L’artista visivo Daniele Spanò mi ha poi accompagnato per tutto l’aspetto visivo e di spazio. Così i tre linguaggi principali – la poesia, la musica dal vivo e il corpo con l’immagine – sono arrivati uno dopo l’altro in modo molto organico.