Su tutti, ‘Origin’, tratto dal romanzo del Premio Pulitzer Isabel Wilkerson, girato da un altro Premio Pulitzer, Ava DuVernay
Il Lido si sta lentamente svuotando, lo si scopre nelle sale non più colme e in qualche proiezione, soprattutto serale, pressoché vuote. Qui il movimento di fuga è cominciato già la domenica sera; a Cannes coincide con la chiusura del mercato il mercoledì, ma qui a Venezia non c’è mercato e i prezzi di alberghi e appartamenti sono altissimi. Anche i conti al ristorante sono salatissimi, per cui file lunghissimi davanti ai negozi alimentari per i panini, anche perché l’unico vero bacaro del Lido, con economici cicchetti e altro, dalla Cristina, è fuori zona e sempre colmo di locali giovani, ma soprattutto anziani. In concorso si sono visti ‘Origin’, che la regista Ava DuVernay ha tratto dal romanzo ‘Caste: The Origins of Our Discontents’ di Isabel Wilkerson, e ‘Io Capitano’, favola edificante firmata con bell’impegno da un Matteo Garrone in piena forma.
Due cose sono importanti da segnalare e riguardano il film ‘Origin’: il testo da cui è tratto è frutto di Isabel Wilkerson (nata nel 1961), una giornalista americana e prima donna di origine afroamericana a vincere il Premio Pulitzer per il giornalismo; la seconda è che la regista Ava DuVernay è la prima donna afroamericana con un film in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia, e questo non è il solo suo primato visto che è stata anche la prima donna afroamericana a essere nominata per il miglior film agli Oscar e la prima donna afroamericana a dirigere un film con un budget di 100 milioni di dollari.
Diciamo subito che ‘Origin’ è un film sorprendente e importante, non solo per il tema che tratta la necessaria distinzione tra i non confondibili termini: razza e casta, ma con la potenza espressiva con cui la regista trasporta le tesi della scrittrice sul grande schermo, riuscendo oltremodo convincente. La signora Wilkerson sostiene che i costrutti sociali di razza e casta non sono sinonimi, ma che “possono coesistere nella stessa cultura e servono a rafforzarsi a vicenda. La razza, negli Stati Uniti, è l'agente visibile della forza invisibile della casta. La casta è l'ossatura, la razza la pelle”. Per dimostrare questo, paragona alcuni aspetti dell'esperienza delle persone di colore americane ai sistemi di casta dell'India e della Germania nazista, ed esplora l'impatto delle caste sulle società da esse plasmate e sulle loro persone. Non tutti sanno che leggi ‘Jim Crow’ degli Stati Uniti furono usate dai nazisti per preparare le loro leggi razziali, e si parla di endogamia; la proibizione del sesso e del matrimonio tra caste, di purezza e inquinamento: la convinzione che la casta dominante sia ‘pura’ e debba essere protetta dall'inquinamento delle caste inferiori, come dimostrava la segregazione delle strutture per lavarsi, mangiare, istruirsi, ecc. negli Stati Uniti dell'epoca Jim Crow. A questo si aggiunge la gerarchia occupazionale: la riserva delle occupazioni più desiderabili alle caste superiori, come sancito dalle leggi Jim Crow degli Stati Uniti che limitavano i neri ai lavori agricoli o domestici. Queste dipendenze sono di casta più che di razza, i nazisti gassavano gli ebrei che erano di razza bianca come loro, i Dalit, o "intoccabili", hanno lo stesso colore di pelle delle altre classi, ma svolgono mestieri ritenuti impuri e sono al limite della società.
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Trayvon Martin, i giorni della protesta
Tutto nasce nella mente dell’autrice da un omicidio, lo stesso che la regista pone all’inizio del film, quello del 17enne Trayvon Martin (interpretato da Myles Frost), assassinato la sera 26 febbraio 2012 perché trovato a girare per un quartiere bianco da una guardia insospettita. Isabel Wilkerson non vuole che si parli di un ennesimo caso di razzismo, ma di un delitto di classe. Il caso è complesso e il film ci conduce a pensare che i sistemi di casta, come una malattia cronica, sono profondamente radicati nelle società e le plasmano troppo spesso male.
E in fondo anche il nostro rapporto con l’immigrazione è un fatto di classe. Lo abbiamo pensato guardando ‘Io Capitano’, un film che racconta l’odissea di due giovani che lasciano Dakar per raggiungere l’Europa, uno Seydou (Seydou Sarr), l’altro Moussa (Moustapha Fall); hanno sui sedici anni, sono cugini e amici. Cominciano il viaggio, nonostante chi lo sconsiglia, pieni di baldante coraggio, che presto finisce con il paesaggio umano che cambia con i farabutti che approfittano di loro, con il drammatico viaggio nel deserto dove scoprono la morte intorno a loro, fino all’incontro con i banditi ai confini della Libia. Moussa viene imprigionato e Seydou torturato, aiutato da un altro migrante che ha un figlio della stessa età. Insieme, fortunatamente, riescono ad avere un’occasione per uscire, un lavoro da muratori gratis; per fortuna, il padrone contento di loro li fa arrivare a Tripoli. Qui Seydou scopre il cugino ferito, ha bisogno di cure, tentano di imbarcarsi ma non hanno abbastanza soldi; i trafficanti di uomini convincono Seydou a pilotare un barcone fino in Italia, e lui si impone di non far morire nessuno. Una favola colma di tragiche realtà, ben raccontata, senza pietismi ma con amaro rigore, applausi pienamente meritati.
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Matteo Garrone
Di bel rilievo anche il teso ‘In the Land of Saints and Sinners’ di Robert Lorenz. Presentato fuori Concorso, il film è ambientato in Irlanda negli anni Settanta, in un momento di tensione per gli attentati dell’Ira. Qui incontriamo Finbar Murphy (un intenso Liam Neeson), che conduce una vita apparentemente tranquilla nella remota cittadina costiera di Glencolmcille. In realtà è un killer professionista che agisce su commissione. Ormai stanco del lavoro tenta di ritirarsi, ma la scoperta di un uomo che abusa di una ragazzina del posto lo manda su tutte le furie e decide di ucciderlo, non sapendo che era uno dei quattro componenti dell’Ira venuti a nascondersi dopo un sanguinoso attentato. Per Finbar cominciano i guai. Quasi un western il film è ben girato e interpretato, bella anche la fotografia capace di raccontare territori e uomini.
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Robert Lorenz